Poi dicono che i cittadini sono disorientati. Che sono facile preda di populismi e demagogie. Che chi la strilla più grossa e più forte sulla rete ha più possibilità di fare breccia nel senso comune delle persone. Come potrebbe essere diversamente di fronte al florilegio di notizie che si smentiscono le une con le altre; alle contraddittorie informazioni non veicolate dalla rete ma da autorevoli organi di informazione, quelli che fanno opinione, come si dice. “È l’Abruzzo la regione ideale”, titola senza tema di fraintendimenti un autorevole quotidiano nazionale. Abruzzo: situazione da grande depressione: è il senso, più o meno, di un altro giornale. Abbiamo bisogno di un piano straordinario di interventi pubblici per risollevare le sorti della regione: si ribatte in un editoriale. Macché, il piano straordinario esiste già: è la risposta del politico che si sente punto nel vivo. C’è addirittura chi evoca un “nuovo corso” rooseveltiano sotto l’ombra del Gran Sasso; chi ritiene che solo facendo squadra si possa arrivare a qualche risultato; e chi confuta che la squadra non avrebbe alcun senso.
Chiamare confusione questa babele in salsa vernacolare sarebbe offendere il pluralismo linguistico. Parole parole parole: l’ispirazione canora avrebbe potuto trovare un valido appiglio al dibattito abruzzese, se non avessimo già un indelebile timbro di copyright imposto da un celebre duetto musicale che ha fatto mostra di più agevoli accordi rispetto ai commentatori nostrani. L’impressione che se ne ricava è duplice. Da una parte si ha la sensazione che certe boutade siano espressione di un dilettantismo che cerca compensazioni nei bignamini di storia. Dall’altra si ha netta la percezione che si voglia spostare il dibattito sull’arretratezza strutturale dell’Abruzzo su argomentazioni astratte per celare il nocciolo della questione: l’incapacità e l’inadeguatezza del ceto politico della regione di stare dietro le sfide della contemporaneità. Un ceto politico (o dirigente, se preferite) che al solo a nominarlo c’è il pericolo di evocare sepolcrali rivolgimenti all’eterno riposo dei padri nobili di quell’Abruzzo che è stato capace, in un ormai passato remoto, di agganciare le economie del Centro-Nord e di diventare una sorta di cerniera tra Nord e Sud. Non ha contato nulla aver avuto intere giunte regionali azzerate dalle inchieste della magistratura, con accuse pesanti attinenti la gestione delle risorse pubbliche? Non ci sono state ripercussioni da un bilancio impaludato per anni nei rigori imposti dal governo centrale a causa dei pesanti disavanzi dovuti a una gestione che aveva smarrito i punti cardinali dell’interesse pubblico? La storia non fa salti e gli errori del passato si pagano. Ma la cosa più grave è che essa, la storia, non è nemmeno maestra di vita, giacché dagli errori non è che abbiamo tratto una qualche lezione. La realtà è che le élite politiche degli ultimi vent’anni (salvo qualche rarissima eccezione) hanno vanificato quanto di buono era stato fatto dal dopoguerra a oggi, grazie alle politiche di piano (Marshall, Vanoni, Cassa Mezzogiorno, eccetera). Una valanga di risorse finanziarie utilizzata per grandi opere infrastrutturali che avevano dato propulsione all’industria, agricoltura e servizi. Proporre oggi la realizzazione di politiche di piano eludendo i nodi nevralgici della rappresentanza politica e dei meccanismi della sua formazione fa venire in mente una luccicante fuoriserie senza ruote, anzi poggiata su blocchetti di cemento