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LA FELICITÀ DELL’INTERA EPOCA

Ho letto da qualche parte che si impiegano più muscoli del viso per essere tristi che per sorridere. Lo dicono gli scienziati, e di fronte alla scienza io chino il capo e mi adeguo. Urca, adesso capisco perché il mio cortese dottore insieme ai farmaci mi prescriveva pure di fare qualche bel sorriso. Del resto, dalla mia faccia da sopravvissuto lui non poteva capire che io spesso dimentico di esternare il sorriso che mi porto dentro.

Adesso capisco la soddisfazione della mia giovane amica che, riuscita a strapparmi un sorriso fuori dai denti, ha pensato bene addirittura di incastonarne la foto in un cubo di plastica trasparente con tanto di neve che volteggia all’interno.

Adesso capisco il fascino di san Gabriele che coinvolge piccoli e grandi, giovani e meno giovani senza distinzione di categoria. Certo, è il santo del sorriso, lui che accoglie sorridendo anche la morte che viene a ghermirlo a soli 24 anni. Adesso capisco.

Ancora non capisco invece perché in Italia debbano esserci tanti infelici di professione. Giorgia, mamma in carriera che ha rinunciato a girare il mondo: “Oggi spesso l’eroe è il cattivo, dovremmo capire che voler male a qualcuno non porta da nessuna parte”, ha detto all’uscita del suo nuovo disco. “La vita è dura” si lamentava un tale mentre sgranocchiava avidamente un galletto di primo canto. “È una vitaccia” commentò il cacciavite. Disperarsi nell’Italia di oggi non è solo controproducente; è offensivo verso chi l’orrore l’ha vissuto o lo vive davvero: la guerra, l’emarginazione, il terrorismo, la persecuzione, la furia degli uragani.

Il fatto è che poi tante infelicità singole finiscono per plasmare l’infelicità di tutta un’epoca. La domanda è: abbiamo davvero motivo di proclamarci più infelici rispetto ad altri periodi storici? Per fortuna vale anche il contrario: tante felicità singole possono fare la felicità dell’intera epoca. Allora, allegria. Io ci sto.

Ho apprezzato recentemente il maestro Riccardo Muti che ha festeggiato a Bergamo i 50 anni dal debutto con la partecipazione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ricevendo la medaglia d’oro, il maestro ha confidato: “Io sono il prodotto della scuola italiana e ne sono fiero. Spero che l’identità della nostra terra non venga scalfita perché ha procurato bellezza e cultura. Fare musica significa abituarsi all’ascolto”, capacità di cui i politici avrebbero un gran bisogno. Non molto diverso il pensiero di Paola Turci, che all’uscita del nuovo album afferma: “Fare arte significa mettersi in ascolto. Non solo con le orecchie o con gli occhi, ma con l’anima”.

Mentre scrivo i Pooh stanno scaldando la voce, anch’essi per i 50 anni di carriera. Ma qui si tratta di calare il sipario. Ultimo concerto trasmesso in diretta via satellite nei cinema di tutta Italia da Bologna, la città che li vide nascere nel 1966 e che ora vuole salutarli con un lungo abbraccio.

L’augurio è che la straordinaria band continui, se non a cantare, almeno a pregare “il Dio delle città e dell’immensità, se questa vita può un po’ cambiarla, prima che ci cambi lei”. Buon anno.

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