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LE SCELTE DI FRANCESCO

Nei mesi di maggio e giugno appena passati papa Francesco è intervenuto nel “governo” della Chiesa italiana in modo deciso. Prima, con la nomina del nuovo presidente della Cei, il cardinale Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, scelto tra una terna di nomi presentata dai vescovi italiani dove Bassetti aveva comunque ricevuto più voti di tutti, poi con la nomina del nuovo vicario di Roma, l’arcivescovo Angelo De Donatis, in sostituzione del cardinale Vallini, già scaduto a rigor canonico da un paio anni. I lettori de LEco probabilmente sapranno già, quando uscirà il giornale, il nome del prossimo arcivescovo di Milano che succederà al cardinale Angelo Scola.

Nomi importanti e scelte “fondative” per una Chiesa italiana entrata definitivamente nell’era Bergoglio. Le sfide, non solo pastorali, con le quali i vescovi italiani dovranno convivere nel prossimo quinquennio sono tante e a queste dovranno dare risposte coraggiose.

Se del mite e saggio cardinale Bassetti già si è scritto molto, interessante e per certi versi nuova appare la scelta del vicario del papa a Roma. Per quattro motivi almeno. Primo: l’età giusta. Monsignor De Donatis ha compiuto 63 anni a gennaio. Ha davanti a sé almeno 12 anni di servizio pastorale “a capo” della diocesi di Roma. Un tempo decisamente opportuno per imprimere decisioni importanti e durature nel governo della diocesi. Secondo: la sua biografia. Uomo di studi e di affabilità pastorale. Dopo la licenza in Teologia morale alla Gregoriana, è stato il parroco “storico” a San Marco Evangelista al Campidoglio dove ha affinato le sue doti riconosciute di oratore e di profondo studioso della parola sacra. Uomo e prete cresciuto tra i libri, la cura pastorale e l’accompagnamento spirituale. Equilibrio, sobrietà e semplicità, oltre a una profonda cultura, sono le sue doti migliori. Non è frutto del caso questa scelta, se andiamo a vedere l’ultimo anno di nomine vescovili nel nostro paese, dove le virtù premiate da Francesco sono esattamente queste, la strada, l’ascolto, la cultura. Terzo: le modalità della nomina. Papa Francesco aveva chiesto che per la scelta del nuovo vicario si mobilitasse tutto il popolo di Dio, scrivendo direttamente al papa. L’esperimento di “democrazia ecclesiale dal basso” ha avuto molte resistenze, soprattutto da gran parte del clero diocesano, che non ha visto di buon occhio questa pratica conciliare voluta dal papa in persona. Nonostante ciò, la scelta di monsignor De Donatis va proprio nella direzione sperata di un coinvolgimento diretto e corresponsabile dei laici a servizio della diocesi e della città. E il metodo consigliato è un “apripista” anche per le altre nomine da qui a venire. Quarto: le cose da fare. Al nuovo vicario è chiesto di essere tessitore di alleanze ecclesiali e civili, in una diocesi dove è difficile imporre una linea pastorale unica e in una città ormai preda di un disfattismo civico allarmante e in mano a una politica che fa acqua da tutte le parti.

Dopo Roma, però, si attende Milano. Troppo importante la nomina della più grande diocesi del mondo. Anche in funzione del prossimo conclave. Non è un caso che tra gli ultimi arcivescovi della città lombarda, uno è diventato papa (Paolo VI) e altri due ci sono andati vicino (Carlo Maria Martini e Angelo Scola). Quale nome indicherà Francesco? Un altro maturo-giovane dal curriculum solido e dall’“odore delle pecore”, come nel caso romano, oppure magari un pastore più avanti nell’età, preparato, colto e con capacità di governo, che ha la fiducia e la stima dei vescovi italiani?

Non solo Milano. A breve scadranno nel loro mandato, per il compimento dei 75 anni di età, alcuni vescovi titolari di diocesi altrettanto importanti. Il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, compirà 75 anni il 14 gennaio del 2018. Il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, il 2 giugno del 2018. L’arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, invece, terminerà il suo mandato, sempre a rigore canonico, il 5 ottobre del 2019.

Bergoglio ha a cuore la Chiesa che è in Italia ma anche e soprattutto il Paese. La Chiesa di Francesco abbraccia le periferie esistenziali, tende la mano a lontani e “diversi”, cura le ferite di un’umanità sempre più fragile e sola. In un’Italia che attraversa una crisi economica senza precedenti e un vuoto di prospettive etiche e politiche, il paradigma bergogliano viene a mettersi di traverso come un ponte dove costruire dighe e alleanze. Alleanze di volti e di mani, di abbracci, di gente in movimento, di associazioni. Alleanze solidali. Un dialogo ferrato tra sacro e vita, tra cielo e terra, dove lo spirituale sorregge e diventa amico di un impegno laicale forte, coraggioso, pieno di futuro possibile, e dove la parola bene comune abbia ancora senso ed efficacia pratica.

Francesco chiede alla Chiesa italiana di ricostruire tra il popolo quel mosaico di relazioni etiche e civiche che, in tempi non tanto lontani, hanno fatto la storia di questo Paese. Chiede un surplus di umanità. E chiede ai laici di essere protagonisti, non solo sudditi di un clericalismo duro a morire.

Per la Chiesa italiana, oltre a sintonizzarsi caratterialmente e culturalmente con l’irruenza benefica latinoamericana di Bergoglio, sarà il tempo di occuparsi inoltre di problemi non indifferenti da risolvere in un futuro ormai non tanto lontano. L’anzianità del clero è una questione seria e mette in movimento idee coraggiose sul ruolo dei laici rispetto alla corresponsabilità della liturgia, sul ruolo delle donne, sul percorso di formazione che i seminari dovranno necessariamente rivedere. E poi, ancora, la situazione economica di molte diocesi non proprio rosea, e la “cura dimagrante” in termini di burocrazia, potere temporale, che andrà prima o poi a toccare altrettante diocesi, troppe (almeno nel nostro paese), e a volte piccole in estensione territoriale.

Alcune volte il vento dello Spirito si prende i suoi tempi biblici, altre invece soffia veloce come un uragano.

(l’Eco di san Gabriele – ed. luglio 2017 – su abbonamento)

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