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sta cambiando il senso della guerra in Siria

Anche se i due leader hanno messo l’accento sulla ripresa degli scambi economici tacendo sul resto, le conseguenze indirette del cambio di passo politico si sono fatte sentire sul piano militare. Lo scontro sta subendo una svolta, a prescindere dalla ferocia con la quale le parti lo conducono, a favore del governo di Assad, del quale Ankara non chiede più ad alta voce la rimozione

In un settore importante della politica internazionale è maturata una svolta durante la scorsa estate, fra il 27 giugno e il 9 agosto. Alla prima data il presidente turco Recep Tayyp Erdogan ha inviato una lettera ufficiale al suo collega di Mosca Vladimir Putin, scusandosi per l’abbattimento alla frontiera turco-siriana, nel novembre 2015, di un aereo russo. Da parte di Ankara, all’epoca, non c’erano state giustificazioni oltre quella, presentata con arroganza, che il jet aveva violato il suo spazio aereo: per alcuni mesi con  conseguenze sul piano sia diplomatico, con la rottura delle relazioni, sia economico, attraverso una serie di sanzioni commerciali contro la Turchia, con velate minacce di rappresaglie militari dalla due parti.

Dopo la lettera di Erdogan erano ripresi a migliorare i rapporti politici ed era stato attenuato l’embargo. Poi, a seguito del fallito colpo di stato di metà luglio in Turchia, Putin era stato il primo a manifestare il proprio caloroso sostegno a Erdogan, senza le riserve circa il rispetto dei diritti umani negli arresti di massa indiscriminati che avevano accompagnato la solidarietà dell’Occidente, in particolare degli Stati Uniti. Al presidente russo, in effetti, le garanzie umanitarie interessano poco, come al suo collega turco. Che anzi aveva colto l’occasione per polemizzare con la “freddezza” degli europei e per accusare gli Usa di dare rifugio al presunto istigatore del putsch, l’uomo d’affari e predicatore islamico Fathullah Guelen, del quale si pretendeva l’estradizione.

Oltre la repressione contro gli oppositori interni (giornalisti, politici, intellettuali, docenti, sindacalisti, uomini d’affari scomodi, militari non allineati) si era intensificata quella contro i militanti delle organizzazioni di indipendentisti curdi, buona parte dei quali era ed è impegnata non soltanto nella lotta per l’autonomia da Ankara ma anche contro i terroristi islamici del califfato: in questo caso con il sostegno e i rifornimenti più o meno espliciti degli americani. Tant’è vero che negli ultimi tempi la polemica si è inasprita, con l’ammonimento venuto da Washington alla Turchia che la priorità non è l’offensiva contro i curdi, ma contro l’Isis.

Sta di fatto che il 9 agosto Erdogan è stato ricevuto al Cremlino da Putin con tutti gli onori. I risultati ufficiali dell’incontro riguardano turismo, commercio, scambi culturali e le importantissime, per la Turchia, forniture di idrocarburi: a tutto ciò è stato dato grande rilievo dalla stampa di regime dei due paesi, mentre è passata sotto silenzio la parte che le cancellerie ritengono essenziale: il ruolo di Ankara e Mosca nell’attuale situazione mediorientale, in particolare nel crudele conflitto siriano. Questo riserbo non ha mancato di preoccupare gli ambienti della Nato, dalla quale sono giunti non tanto velati ammonimenti: non è possibile, è stato detto, per chi fa parte dell’organizzazione stringere alleanze con la Russia. Perché qui i timori sono reali. Fra le decine di migliaia di arrestati dopo il fallito colpo di stato ci sono figure di spicco di addetti ai comandi atlantici, in genere fedeli ai principi Nato; non si celano, con la permanenza nelle strutture atlantiche di seguaci di Erdogan, i timori di fughe di informazioni di interesse strategico per la politica di difesa occidentale. È noto, infatti, che quello turco è uno dei più efficienti eserciti dell’alleanza, e come tale adeguatamente rifornito dall’industria bellica americana.

Anche se Erdogan e Putin hanno messo l’accento sulla ripresa degli scambi economici tacendo sul resto, le conseguenze indirette del cambio di passo politico si sono fatte sentire sul piano militare. Lo scontro in Siria sta subendo una svolta, a prescindere dalla ferocia con la quale le parti lo conducono, a favore del governo di Assad, del quale Ankara non chiede più ad alta voce la rimozione; la situazione premia Mosca che sin dal principio si è schierata con il presidente dittatore e intende mantenere le sue basi nel Mediterraneo, concesse da Damasco. A sua volta la Turchia si sente ufficialmente le spalle coperte nella repressione anticurda, anche se quello del Kurdistan è un problema che agiterà per decenni l’intero Medioriente, non si sa quanto a favore dei turchi.

Erdogan in questo momento gode senza dubbio del favore popolare, come ha dimostrato la reazione della gente al tentativo di putsch. Alza la voce per nascondere le difficoltà che il suo paese sta incontrando: è bloccato il negoziato per l’ingresso in Europa, che sta diventando una pura illusione, tanto più dopo la minaccia di una reintroduzione della pena di morte e a seguito dell’abolizione delle garanzie personali; l’economia batte in testa, sia per la caduta verticale del prodotto interno lordo, sia per la drastica riduzione delle entrate dovute al turismo; sono aumentati i timori sulla sicurezza, per il terrorismo islamista e per la lotta armata dei curdi, come dimostrano recenti, sanguinosi attentati.

Alcuni commentatori (e fra essi esuli turchi che collaborano con la stampa internazionale) attribuiscono al governo di Ankara l’ambiguo desiderio di conquistare l’egemonia nel mondo musulmano respingendo i criteri della laicità, introdotti cento anni fa dalla rivoluzione di Kemal Ataturk, e reintroducendo più rigidi criteri islamici. Lo proverebbe lo scarso slancio nella guerra contro il califfato, quasi a prevedere, a conflitto terminato, di potersi erigere a rifugio dei fondamentalisti sconfitti e a leader di un islam restituito alla sua purezza originaria.

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