Pio Campidelli
Mamma Filomena si ritrovò a casa con gli altri quattro figli e con tanto lavoro. Tempo di stare in ozio non ne aveva davvero. Ma il cuore e la mente erano a circa dieci chilometri nel santuario della Madonna di Casale dove il suo Gigino (non si era mai abituata a chiamarlo Pio), stava correndo verso il paradiso. I segni evidenti della tisi non lasciavano dubbi o speranze: il paradiso per lui era ormai dietro l’an- golo. E rivedeva come in un film la vita del figlio. Una sequenza veloce e brevissima. Appena ventuno anni volati in fretta. Rapidi come un sospiro. Rivediamola anche noi. Insieme a lei. Giuseppe Campidelli e Filomena Belpani si sono sposati da quasi otto anni nella chiesetta di San Martino dei Mulini (Rimini). Sono poi venuti ad abitare tra il verde dei campi a Trebbio di Poggio Berni nell’entroterra riminese. Giuseppe infatti ha ottenuto di condurre a mezzadria un podere vicino al fiume Marecchia. La casa colonica è circondata da colline su cui sono aggrappati i paesi di Verucchio, Torriana e Poggio Berni. La solitudine è spesso riempita dal vociare dei contadini che vengono per macinare il grano nell’attiguo mulino. Il silenzio non di rado è lacerato dalle loro bestemmie. In casa con Giuseppe vive anche il fratello Michele. Uomo dal carattere bizzarro, non disdegna un buon bicchiere di vino. Il suo parlare supera a volte i limiti del pur colorito linguaggio dei contadini romagnoli e non è immune neppure da qualche bestemmia. Nei documenti viene spesso indicato come “lo zio Bertoldo”. Ma anche lui quando guarda i nipotini si intenerisce e sente fremiti di insospettata dolcezza. Pio, entrato in convento, lo ricorderà con affetto nelle sue preghiere. Sorriderà soddisfatto quando gli diranno che finalmente “zio Bertoldo” ha smesso di bestemmiare. In casa Campidelli non manca niente di indispensabile, ma non c’è niente di superfluo. Il duro lavoro dei campi permette di vivere dignitosamente. Quello che vi regna in abbondanza è il senso del dovere e la costante preghiera. Una invidiabile pace familiare ne è il naturale corollario. Giuseppe e Filomena, rispettosi della legge del Signore, sono cristiani come pochi. In questa famiglia, sono già nati Attilio nel 1861, Emilia nel 1864 (una prima Emilia è morta a soli 18 mesi). Ora, siamo nel 1868, si aspetta il quarto figlio. Il bimbo nasce il 29 aprile ed è battezzato lo stesso giorno con il nome di Luigi, ma in casa si taglia corto e subito lo chiamano tutti Gigino. Entrando tra i Passionisti si chiamerà Pio. Per l’avanzata primavera la campagna circostante è già un tripudio di colori e profumi. Ma il fiore più bello è sbocciato in casa Campidelli, accolto con commozione e gratitudine come dono di Dio. Se papà Giuseppe e mamma Filomena potessero lontanamente immaginare cosa sarà di quel bambino, ci scapperebbe di certo qualche lacrima in più… Nasceranno in seguito altre due sorelline, Teresa e Adele. A cinque anni la cresima, a dieci la prima comunione. A sei anni una dolorosa esperienza: il papà Giuseppe muore di tifo lasciando nel pianto la famiglia. Filomena attinge forza dalla fede, prende in mano la situazione e per i figli incarna la dolcezza materna e la sicurezza del padre. Soprattutto Gigino è attento ai suoi insegnamenti. Assimila tutto mostrando una inclinazione particolare per la preghiera, un orrore per tutto ciò che è male, una vivezza incredibile nel percepire e vivere la presenza di Dio. Fa tenerezza sorprenderlo a togliere i sassi dalla strada che porta al mulino. I “cattivi”, spiega, non devono avere occasione di bestemmiare. E soltanto la parola bestemmia lo fa rabbrividire tutto. Insegna anche catechismo. Ha legato su un albero una campanella con la quale chiama a lezione bambini e bambine dei dintorni. A Trebbio frequenta prima la scuola informale aperta dal cappellano don Angelo Bertozzi e apprende da lui anche le prime nozioni di latino; passa in seguito alla scuola pubblica. Viene su gracile e, anche se lo volesse, per il duro lavoro dei campi non potrebbe dare un aiuto apprezzabile. Lo si vede pregare a lungo con un gusto ed una consapevolezza che vanno ben oltre l’età. La mamma è la depositaria stupefatta della ricchezza interiore di Gigino. Larga di consigli e di attenzioni si accorge che quel figlio vola sempre più in alto ed è sempre meno facile tenergli dietro. Chiede aiuto al fratello sacerdote don Filippo e concludono: Dio sta lavorando nel cuore del fanciullo che risponde meravigliosamente bene. La sorella Emilia ricorda che “prega specialmente per il babbo, per i morti e per i parenti”. Il fratello Attilio nota che “pur di andare in chiesa ogni giorno si fa i suoi cinque chilometri di strada anche con le scarpe che gli fanno le ferite”. C’è addirittura chi si lamenta perché “sta sempre in chiesa, o in casa a fare gli altarini”. La madrina di battesimo sentenzia: “Pare nato per il paradiso”. I compagni scherzano sul suo muoversi umile, raccolto e riservato: “Gigino, tu così diventi gobbo”; egli risponde sorridendo. Alla mamma dicono: “E’ stato un dolore per te perdere il marito, ma il Signore ti ricompensa con questo figlio”. L’insegnante, la signorina Maria Amati, lo vede “attento, rispettoso, ubbidiente. Ricordo benissimo, aggiunge, la sua figura delicata e palliduccia. Non mi dava mai occasione di rimproverarlo. Era un angioletto. Nella mia professione non ho più incontrato un ragazzo come lui”. Nel 1878 i Passionisti arrivano in Romagna per assumere la cura pastorale del santuario della Madonna di Casale presso Sant’Arcangelo (Rimini). Nel 1880 predicano le missioni anche a Poggio Berni e Torriana. Gigino ha dodici anni. Corre ad ascoltarli insieme alla mamma; ne resta affascinato, vede chiaro che quella è la sua vita. “Ti voglio passionista”, si sente dire interiormente. Risponde con entusiasmo. Il superiore, al quale confida subito il suo desiderio, lo guarda con affetto ma gli mette avanti l’età: “Sei troppo piccolo; devi aspettare almeno fino a quattordici anni”. E poi, ma non glielo dice, desta qualche dubbio la sua salute, gracilino com’è. Pio comincia subito a contare i giorni che lo separano dal quattordicesimo compleanno. “Potresti andare in seminario”, azzardano famigliari e parenti. Ma lui sa quello che vuole. “Sacerdote sì, precisa; ma prete no. I preti vivono nel mondo con molta responsabilità e pericoli. I religiosi invece stanno sempre con Dio e hanno tanti mezzi per salvarsi”. Il 2 maggio 1882 parte per il convento. “Noi tutti assieme alla mamma piangevamo, affermerà la sorella Teresa; solo lui era allegro e rideva. Diceva: Per me non dovete piangere; io sono veramente felice”. Parte perché nel cuore gli brucia un grande desiderio: diventare sacerdote, missionario e farsi santo. Ha soltanto quattordici anni e la decisione potrebbe sembrare più grande di lui. Invece… Veste l’abito religioso il 27 maggio 1882 e d’ora in poi si chiamerà Pio. Nel gennaio del 1883 il noviziato viene trasferito a Sant’Eutizio di Soriano al Cimino (Viterbo). Qui vivrà sei mesi, gli unici lontani dalla sua Romagna. Il 24 luglio infatti torna a Casale per gli studi ginnasiali, filosofici e teologici. Emette i voti il 30 aprile 1884 al compiersi del sedicesimo anno di età, come esigono le norme del tempo. La comunità che lo ammette con parere unanime alla professione, nota la sua “singolare modestia, l’esattezza nell’obbedire agli ordini anche minimi dei superiori, la compostezza esteriore, segno sicuro del raccoglimento interno. Se tutti i novizi fossero come lui il maestro potrebbe dormire tranquillo”. Il suo maestro ne conserva un caro ricordo. Qualche anno dopo lo si sentirà dire mentre guarda le giovani leve: “Dunque sono finiti i novizi passionisti? Qui non ci sono più i novizi. Pio sì che era un vero novizio: buono, umile, obbediente, raccolto che faceva davvero orazione. Se non imitate Pio non sarete veri novizi”. Pio ormai corre verso il sacerdozio con una vita fatta di preghiera e di studio. Per la gente che frequenta il santuario è il “santino di Casale”. Il 17 dicembre 1887 nella cattedrale di Rimini, Pio riceve la tonsura e gli ordini minori e prosegue il cammino sotto lo sguardo della Madonna di Casale da lui perdutamente amata. Durante la malattia ne vorrà sempre una immagine tra le mani per deporvi i suoi fervidi baci. Ha un quadernino personale intitolato “Ghirlanda di fiori raccolti da me confratel Pio, indegnissimo peccatore, da presentarsi alla Vergine in punto di morte, incominciato nel dì 13 maggio 1886”. E’ scritto con segni convenzionali e il contenuto resta quindi un mistero. Peccato. Tutto sembra andare per il meglio. I superiori accarezzano sogni e progetti stupendi; e ne hanno tutti i motivi. Pio offre le garanzie più ampie. La gioia è il suo clima abituale. La santità è ciò che gli sta più a cuore. Improvvisamente, all’inizio dell’inverno del 1888, compaiono i primi sintomi della tubercolosi, malattia del secolo. Alla visita militare Pio viene dichiarato inabile perché “troppo stretto di petto”. E’ alto un metro e settantacinque e questo lo fa apparire ancora più esile. Il giovane non si smarrisce e si affida al Signore. A qualche parente che gli suggerisce di tornare in famiglia per meglio curarsi ed anche con la prospettiva di una ricca eredità, risponde deciso: “Non lo farei neppure per tutto l’oro del mondo”. Alla mamma lascia come prezioso ricordo un crocifisso lavorato con le sue mani. I confratelli ora più che mai si accorgono di vivere vicino ad un santo. Lui passa il tempo a letto immerso ore e ore nella contemplazione di Dio o cantando sottovoce canzoncine alla Madonna. Poco prima di morire il gesto di amore per la sua terra, consapevole del difficile periodo che sta attraversando. Lo sentono dire: “Offro la vita per la Chiesa, per il papa, per la congregazione, per i peccatori, per la mia diletta Romagna”. Un gesto che rivela una vita donata da sempre. La Romagna la porta nel cuore e vuole portarla a Dio. In estasi prorompe in esclamazioni che lasciano intuire l’altissima mistica a lui familiare: “Oh sapienza infinita del mio Dio! Oh infinita bontà! Oh misericordia grande, incommensurabile di Dio! Oh grande verità! Oh infinita carità. Sì, Dio è carità. Com’è possibile offendere una carità così grande?”. Attorno al suo letto sostano tutti i confratelli che pregando accompagnano al cielo il religioso più giovane della comunità. “Ecco la Madonna che viene”, dice Pio un attimo prima di morire, guardando fisso verso la parete. Sorridendo. Il cuore cessa di battere il 2 novembre 1889 alle ore ventidue e trenta. La Madonna è venuta a prenderlo per portarlo in paradiso. L’appuntamento dato da Pio a mamma Filomena. E non soltanto a lei… Ha ventuno anni, sei mesi, quattro giorni. E’ stato il primo passionista romagnolo, il primo ad entrare e morire nel convento di Casale, il primo ad essere ammesso al noviziato nella ricostituita provincia religiosa della Pietà dopo la soppressione durata quindici anni. Sarà anche il primo a salire sugli altari. Migliore auspicio per la comunità e il santuario di Casale non poteva esserci. E’ sepolto nel cimitero di San Vito. D’inverno, diranno i testimoni, la neve non rimaneva mai sulla sua tomba. Nel 1923 ha luogo l’esumazione e le sue spoglie sono trasportate nel santuario di Casale. E’ un trionfo. Nessuno ha dimenticato “il fratino santo”. Le campane suonano a festa. Le spoglie di Pio sono collocate vicino all’altare della Madonna. Il 23 settembre del 1944 l’esercito tedesco in ritirata, fa esplodere mine di un potente esplosivo collocate all’interno del santuario: una spaventosa detonazione e nel cielo un fungo di una caligine densissima. Quasi trecentocinquanta anni di storia sepolti in un attimo. Crollano l’abside, il transetto con la cupola, parte dell’annessa casa religiosa. Al posto del campanile trovano una fossa larga e profonda. Le campane ridotte in frammenti dispersi qua e là su un raggio vastissimo. L’affresco con l’immagine della Madonna sarà ritrovato tra le macerie quasi un anno dopo. In piedi resta, miracolosamente illeso, il monumentino con l’immagine e le spoglie di Pio che nel 1969 troveranno decorosa e degna collocazione nel nuovo santuario. Il 17 novembre 1985 Giovanni Paolo II con una cerimonia trasmessa in mondovisione, dichiara beato il giovane passionista. E’ l’anno internazionale della gioventù. Pio viene proposto a tutti, particolarmente ai giovani, come modello di generosità, di amore alle piccole cose, di vita interiore pienamente appagante. Il santuario della Madonna di Casale diventa anche il santuario del beato Pio Campidelli. Una vita, quella di Pio, fatta all’apparenza di niente. Già, l’apparenza. Abituati al luccichio ed al sensazionale ci si contenta della facciata. Oltre non si sa andare: ci si troverebbe disorientati e smarriti. Analfabeti davanti a un poema. E la vita di Pio è tutta un poema di semplicità e interiorità. Una pagina scritta attingendo al vocabolario della vita quotidiana; un inno cantato con le note alla portata di tutti. Piccolo contadino gracile come un grissino, giovane studente nascosto nel nero dell’abito passionista. Conosce pochissima gente; pochissimi sanno il suo nome. Una vita si direbbe monotona e grigia senza sussulti e senza acuti. Una esistenza sepolta in un silenzio mai squarciato dal fragore di gesti clamorosi. Un cammino percorso senza colpi di gomito per farsi largo e uscire allo scoperto. Una vita insomma che i nostri canoni non riescono a inquadrare e tanto meno a celebrare. Pio ha tessuto il ricamo della sua santità con i fili di gesti usuali riempiendoli di amore. Gesti ripetuti, ma sempre nuovi perché costruiti sulla giovinezza eterna di Dio. Pio vive lo straordinario di una vita ordinaria: tutto riempie di Dio e tutto rapporta a Dio. E lo fa con impegno tenace. Senza smagliature e cedimenti, senza evasioni e rimpianti. Tutto accetta con gioia, tutto vive con serenità, tutto offre con amore. Anche la vita. La sofferenza ne tronca l’esistenza ma non ne incrina la pace e neppure ne offusca il sorriso. La morte prematura non ne cancella il ricordo. Ci si stupisce sempre più, davanti all’avventura limpida e straordinaria di questo giovane che visse “da angelo” e che morì donando la vita.