Niceforo Diez e Compagni

Conceda a me la grazia di essere un vero discepolo  di Cristo e spargere il mio sangue come suo martire…  Anche se mi ammazzassero per Cristo, tornerò  in seminario… Potete essere orgogliosi di avere presto un figlio martire in cielo… Se è necessario dobbiamo essere disposti anche a morire per la nostra fede… Sarei felice di morire  martire… Per chi altri potremmo morire se non per Gesù Cristo?…  Morire per Cristo è stato sempre il mio ideale”. E’ quanto scrivono,  condiviso in pratica da tutti, alcuni dei ventisei martiri passionisti  di Daimiel. L’impegno è chiaro, il desiderio ardente, la decisione  ferma. Non furono quindi sufficienti minacce, tormenti e fucilazioni  per farli recedere dalla loro eroica fedeltà al vangelo. Vittime dell’odio,  testimoni dell’amore.  Il martirio dei ventisei Passionisti si consuma nel 1936 all’inizio  della guerra civile spagnola. Daimiel è una cittadina di oltre 16mila  abitanti situata a circa centocinquanta chilometri a sud di Madrid.  Nella zona durante la dura persecuzione viene eliminato più del  40% del clero. Nella periferia di Daimiel i Passionisti hanno una  grande casa e curano il santuario dedicato a “Cristo della Luce”. Vi  si conserva e vi si venera un grande crocifisso: e dal Crocifisso i  religiosi ricevono ogni giorno luce e forza per il loro cammino spirituale.  La comunità è composta da trenta religiosi comprendente sacerdoti,  fratelli, studenti: nessuno di loro si è mai immischiato in  questioni politiche. Vivono tuttavia nel clima di instabilità politica,  di feroce odio contro la Chiesa e ne sono vittime innocenti. Alla comunità  si è aggiunto il provinciale padre Niceforo Diez che, prevedendo  giorni difficili per i confratelli, il 4 giugno 1936 è tornato in  Spagna dalla visita alle nuove fondazioni nell’America latina. Il 15  giugno con i suoi consiglieri programma il nuovo anno scolastico e  poi decide di visitare le comunità.  Per motivi restati sconosciuti, cambia il programmato calendario  delle visite. Passa a Madrid per salutare la sua famiglia e il giorno  13 luglio è a Daimiel. Vuole stare vicino ai suoi religiosi, soprattutto  ai giovani studenti, per essere di conforto e di esempio. Data  la difficile situazione politica, tutti i religiosi sono stati forniti di  abiti civili. Nel mese di aprile padre Gianpietro Bengoa ha scritto  alla sorella: “Ogni giorno si sente dire che ci rimane solo poco tempo  e vogliono assalire il convento. Stiamo soffrendo moltissimo e  non abbiamo alcuna libertà”.  Il 18 scoppia l’insurrezione militare. Il giorno seguente, domenica,  nella chiesa dei Passionisti alla celebrazione eucaristica delle  ore sette c’è pochissima gente. In paese tutte le chiese sono circondate  dai soldati: lo riferisce in portineria una anziana signora e lo  conferma alla comunità padre Zenone Merino che rientra in convento  dopo aver celebrato la messa in paese presso la casa di riposo  per anziani. Il convento viene perquisito da gente che va in cerca di  armi. Il giorno 20 padre Giustiniano Cuesta fratel Benito Solana vanno  in paese inviativi dal superiore per sapere notizie più precise. Vengono  riconosciuti anche se sono in abiti civili: le milizie li portano  nella “casa del popolo” e li sottopongono a tre ore di interrogatorio.  Nella notte un’altra inutile perquisizione. Tutti ormai sono convinti  che la tragedia sta per iniziare. Nel pomeriggio del 21 il superiore  chiede al sindaco la protezione di due uomini della guardia civile,  ma viene assicurato che non succederà niente. Invece… La sera dopo  le ultime preghiere e la benedizione del provinciale ognuno si ritira  in camera per il riposo. Alle ore ventitré e trenta la comunità viene  bruscamente svegliata dal gruppo dei miliziani armati che ordinano  l’immediato sfratto. “Il convento, diranno con tono minaccioso,  deve servire ad altre cose”.  Il provinciale, avvisato dal portinaio, raduna i religiosi in chiesa.  Rivestito di cotta e stola, apre il tabernacolo, prende la pisside  con le ostie consacrate e rivolge ai confratelli commosse e commoventi  parole di incoraggiamento e di speranza. Nella tragicità del  momento la sua voce ferisce il silenzio della notte e scende come  viatico nel cuore dei confratelli. “Cittadini del Calvario, dice, questo  è il nostro Getsemani. Alla prospettiva dolorosa della morte la  nostra natura sbigottisce e si abbatte, però Gesù è con noi. Io sto per  darvi colui che è la forza dei deboli. Gesù all’inizio della sua passione  fu confortato da un angelo, noi siamo confortati e sostenuti  da lui stesso. Tra poco saremo con Cristo. Cittadini del Calvario,  animo a morire per Cristo. A me tocca il compito di infondervi coraggio,  ed io stesso mi sento stimolato dal vostro esempio”. Le parole  del provinciale sono riferite dal citato padre Zenone che sarà  incarcerato con gli altri confratelli, ma si salverà dalla morte.  Padre Niceforo imparte a tutti l’assoluzione sacramentale; la riceve  anche lui dal superiore padre Germano e tutti ricevono l’Eucaristia  con una devozione straordinaria. L’intera comunità passionista  si avvia verso il martirio. I religiosi si consegnano ai miliziani restati  fuori in attesa. Padre Niceforo li invita a martirizzarli subito in quello  stesso luogo, lì in convento e non “come conigli in aperta campagna”.  Ma loro assicurano di non volerli uccidere; li contano, li fanno  incamminare due a due e li conducono fino alle porte del cimitero.  Qui danno l’ordine di abbandonare la città, di disperdersi e di non  tornare più indietro. I religiosi sono sicuri di andare incontro al martirio.  Si abbracciano fraternamente e si baciano con affetto: l’appuntamento  è per il cielo. Si rivedranno in paradiso. Si dividono a gruppi  (in ogni gruppo c’è almeno un sacerdote come sostegno e conforto  per i giovani studenti) e si incamminano in varie direzioni. Prima  dell’ultimo saluto il provinciale consegna ad ogni religioso una piccola  somma di denaro per eventuali necessità. I Passionisti subiscono  il martirio in luoghi e con modalità differenti nell’arco di tre mesi. I  primi il 23 luglio, gli ultimi il 23 ottobre. Solo cinque si salveranno e  racconteranno i fatti. Nella memoria porteranno sempre il ricordo di  quella atroce tragedia e nel cuore il rimpianto per il martirio soltanto  sfiorato. I ventisei martiri saranno dichiarati beati dal papa Giovanni  Paolo II, il primo ottobre 1989.  Il primo gruppo di dodici religiosi, è catturato a Manzanares. Il  loro arrivo in città viene comunicato con un cinico messaggio indirizzato  da un anarchico a suo fratello: “Transiteranno di là i Passionisti  di Daimiel. E’ carne fresca! Non lasciartela sfuggire”. Del gruppo  fanno parte il provinciale padre Niceforo, nove studenti e due sacerdoti.  Cacciati fuori della stazione ferroviaria, vengono condotti  vicino alla strada e fucilati. Muoiono subito gli studenti Epifanio  Sierra, Abilio Ramos, Zaccaria Fernandez, Giuseppe Estalayo. Al  padre Niceforo, che ferito guarda sorridente il cielo, viene sparato  il colpo di grazia. I loro corpi sono raccolti e trasportati al cimitero.  Lo studente Fulgenzio Calvo, condotto in ospedale gravemente ferito  e lasciato sul pavimento per ordine dei miliziani, muore dissanguato  due ore dopo, senza riprendere conoscenza.  Gli altri sei componenti del gruppo, i due sacerdoti Ildefonso  Garcia e Giustiniano Cuesta, gli studenti Eufrasio De Celis, Tommaso  Cuartero, Onorino Carracedo e Giuseppe Maria Cuartero restano a  terra feriti. Sono insultati e colpiti con calci dalle mogli dei miliziani.  Arriva la Croce Rossa che li trasporta in ospedale dove sono assistiti  amorevolmente dalle Figlie della Carità. Una assistenza che dura pochi  giorni. Le suore infatti vengono espulse dall’ospedale il successivo  primo agosto. Commoventi le testimonianze che ci lasciano di  questi religiosi: si mostrano sereni, sopportano con fortezza il dolore,  perdonano i persecutori, dichiarano la loro gioia di essere Passionisti,  si rammaricano per non essere già morti martiri. I carnefici si augurano  una sollecita guarigione dei religiosi perché usciti dall’ospedale  saranno subito uccisi. Qualche medico volutamente ritarda la dichiarazione  di avvenuta guarigione.  Appena recuperano un po’ di forze, i feriti sono obbligati a prestare  i servizi come cuochi e infermieri. Sono addirittura costretti a  servire gli stessi carnefici e rivoluzionari che li deridono beffardi,  vomitando ancora odio e insulti. Il 23 ottobre sono prelevati con la  scusa che il governatore di Ciudad Real li vuole incontrare per accertamenti.  Ma i religiosi hanno già capito. Il padre Ildefonso imparte  l’assoluzione a tutti e lui stesso la riceve da padre Giustiniano. Nella  periferia di Manzaneres sono fatti scendere e vengono fucilati.  Un gruppo trova la morte il 23 luglio a Carabanchel Bajo. Lo  compongono i padri Germano Perez e Filippo Valcobado, i fratelli  Anacario Benito e Filippo Ruiz, gli studenti Maurilio Macho, Giulio  Mediavilla, Giuseppe Osés Sainz, Giuseppe Maria Ruiz, Laurino  Proaño. Diretti verso Madrid, vengono arrestati alla stazione di Ciudad  Real il giorno 22, poco prima del mezzogiorno. Un funzionario del  ministero dell’interno testimonierà: “I religiosi venivano in fila indiana  tutti legati al collo con la stessa corda… Mi resi conto che uno  (lo studente Giuseppe Osés Sainz) perdeva sangue dietro l’orecchio.  Sentii dire che gli avevano lanciato un mattone mentre passavano  vicino ad un edificio in costruzione lungo il percorso. Tutti  erano vestiti con abiti civili ma si capiva bene che erano religiosi  dal loro modo di agire e per la modestia ed umiltà con cui ricevevano  le ingiurie”. Lo stesso teste, che per motivo del suo ufficio parlerà  a lungo con i religiosi, dirà ancora: “Non ho mai visto da parte  loro alcuna reazione contro i loro nemici. Piuttosto una pace e serenità  ammirevoli, anche nel religioso ferito con il mattone. Sono pienamente  convinto che erano stati condannati a morte già a Daimiel  e che quest’ordine veniva trasmesso per telefono da una stazione  all’altra. Sono morti perché religiosi e senza opporre resistenza”.  Per ordine del governatore viene loro consegnato un lasciapassare  per la capitale. Questo salvacondotto che li qualifica come religiosi  Passionisti di Daimiel sarà la loro condanna, pur non rientrando ciò  nelle intenzioni del governatore. I religiosi nel pomeriggio prendono  nuovamente il treno diretti a Madrid. Secondo testimonianze  attendibili scendono a Carabanchel Bajo nelle prime luci dell’alba.  Arrestati dalle milizie, avvertite come al solito, vengono fucilati uno  dopo l’altro. Un sacerdote del gruppo (padre Germano o padre Filippo)  chiede di essere ucciso per ultimo; viene accontentato tra risate  di scherno. Intanto assolve i confratelli man mano che vengono uccisi.  Alla fine sembra che le milizie lo vogliano risparmiare; ma lui  dice: “Il mio posto è vicino ai miei fratelli immolati”. E viene quindi  ucciso. Mentre all’obitorio i loro corpi sono esaminati dal medico,  entra un soldato che sentenzia cinicamente: “Questa canaglia  non farà più danno”.  Un gruppo, composto da padre Pietro Largo, dal religioso fratello  Benito Solana e dallo studente Felice Ugalde, attraverso i campi  si dirige verso la città di Malagón, con l’intenzione di proseguire  verso Madrid, dove saranno ospitati da una sorella del padre Pietro.  Camminano tutto il giorno 22. Per strada si fermano a chiedere  acqua presso un mulino a gente accogliente ed amica. Arrestati il 23  luglio sono rinchiusi in una piccola stanza del municipio di Malagón.  “Abbiamo con noi tre pesci grossi. Sono religiosi di Daimiel”, dicono  i militi. Vengono in seguito accompagnati alla stazione perché  prendano il treno e intanto si comunica il loro passaggio. A Urda, in  provincia di Toledo, sono attesi da rivoluzionari che li obbligano a  scendere. Tra gli insulti della gente, sono fucilati nei pressi della  stazione il 25 luglio.  Altri sette religiosi si incamminano verso Ciudad Real. Ma prendono  strade differenti. I padri Zenone Merino e Paolo Vega, gli studenti  Gonzalo Cirauqui, Andrea Goya e Melitone Alonso attraversano  i campi; invece padre Gianpietro Bengoa e il religioso fratello  Paolo Maria Leoz percorrono la strada principale. Arrivano tutti a  Ciudad Real dove le loro strade si dividono ancora. I primi cinque,  di età ancora giovane, vengono fermati e consegnati alla polizia.  Ottengono un visto per Madrid dove restano durante il periodo della  guerra. Nel 1939 usciranno dal carcere e racconteranno quanto successo  alla comunità martire di Daimiel. Il padre Giampietro e fratel  Paolo Maria con altri religiosi di diverse congregazioni, si fermano  in una umile pensione. La proprietaria darà una edificante testimonianza  del comportamento dei religiosi. Trascorrono il tempo nella  preghiera, nella lettura spirituale e nel lavoro.  Il padre Gianpietro viene a conoscenza della morte dei confratelli:  con un telegramma ne informa la curia generale dei Passionisti a  Roma. La notizia sarà poi ripresa e pubblicata dall’Osservatore Romano.  Intanto padre Gianpietro confessa ed incoraggia coloro che  vivono con lui. Per sé chiede al Signore la grazia del martirio e si  prepara alla sofferenza portando il cilicio. Raccomanda alla padrona  della pensione: “Se qualcuno viene a prenderci per fucilarci non  nutrire odio né rancore per nessuno, anche se veniamo trattati nel  peggiore dei modi. Il Signore lo permette per la nostra santificazione”.  Il fratel Paolo Maria aiuta in cucina, cura il pollaio, lavora come  calzolaio. Tutto questo per essere di peso il meno possibile. Per indiscrezione  di alcuni visitatori vengono scoperti. Il mattino del 24  settembre le milizie li catturano e li portano in prigione. Durante la  notte un nuovo trasferimento nel vicino paese di Carrión de Calatrava.  Il giorno successivo sono fucilati mentre il padre Gianpietro stringendo  il crocifisso grida: “Viva Cristo Re”.  Con questa tragedia non solo la comunità di Daimiel, ma l’intera  provincia religiosa della Sacra Famiglia cui appartengono i religiosi,  subisce un colpo durissimo. Il futuro sembra crudelmente reciso  soprattutto perché molti dei martiri sono giovani studenti e  rappresentano una radiosa e promettente primavera. Sedici di loro  non superano i ventuno anni. Il più giovane, Giuseppe Maria, ne ha  appena diciotto. Soltanto cinque hanno oltrepassato i quaranta anni  e due i cinquanta. Quindici sono ancora studenti e si preparano ad  essere sacerdoti. Sognano già di andare in missione all’estero principalmente  in Venezuela, a Cuba e in Messico dove la provincia religiosa  si sta coraggiosamente impegnando in un intenso apostolato  che richiede sempre più la presenza di forze nuove.  Ma sono soprattutto decisi a diventare santi. Ideale questo, perseguito  fermamente da tutti. Giovani e meno giovani.  Sognavano, i giovani studenti, la vita missionaria oltreoceano.  Molti dei religiosi più anziani avevano lavorato per lunghi  anni in terra di missione e ne sentivano profonda nostalgia.  Ma tutti i Passionisti della comunità di Daimiel volevano  prima di ogni altra cosa diventare santi. E ci riuscirono. Il martirio  avevano osato soltanto sperarlo. Gli eventi non li colsero impreparati.  Non mancarono alcuni parenti che consigliavano, particolarmente ai  giovani, di lasciare il convento e l’abito religioso. Sarebbe stato sufficiente  per evitare la morte. Ma furono consigli inutili. Il martirio fu la  degna conclusione di una vita vissuta da autentici “cittadini del Calvario”  nella quotidiana ricerca personale e comunitaria della piena  conformazione al Crocifisso. L’odio dell’uomo non riuscì a spegnere  questo anelito, ne affrettò piuttosto la realizzazione. I carnefici non  uccisero neppure la speranza. Dal martirio dei ventisei confratelli, i  Passionisti trassero nuovo slancio per il proprio futuro.  Visti da vicino  Accostiamoli, questi eroici testimoni. Ognuno di loro arriva all’appuntamento  con il martirio portando la propria storia, i propri  anni, i propri sogni ed anche i propri problemi. Chiamiamoli per nome  

I loro nomi sono scritti in cielo  con silenzioso tremore, con riconoscente affetto, con stupita ammirazione.  A guardare i loro corpi martoriati, fedelmente descritti dagli  agghiaccianti referti medici, c’è da rabbrividire di orrore per la disumana  crudeltà dei carnefici. Meglio spingere lo sguardo nella loro anima,  leggere nel loro cuore, ascoltare il loro anelito per la perfezione.

Niceforo Diez  (17 febbraio 1893-23 luglio 1936; 43 anni, sacerdote )  E’ il superiore coraggioso e ammirevole che vuole stare vicino ai  suoi religiosi nel momento della prova. Orfano di padre a soli tre giorni,  entra tra i Passionisti nel 1906 ed emette la professione religiosa  nel 1909. Studia filosofia e teologia in Spagna, poi in Messico e negli  Stati Uniti. E’ ordinato sacerdote a Chicago nel 1916. Dopo le prime  esperienze apostoliche negli USA è trasferito a Cuba e in Messico. E’  impegnato nell’insegnamento e nelle missioni, riscuotendo plauso  nell’uno e nell’altro campo. La persecuzione in Messico lo costringe a  rientrare a Cuba dove ricopre l’incarico di superiore della casa religiosa  di L’Avana. Nel 1932, dopo ventidue anni, torna in Spagna chiamato  al compito di consigliere provinciale. E’ preposto alla fondazione  di nuove case. Nel 1935 viene eletto superiore provinciale. Mentre  visita le comunità del Venezuela, di Cuba e del Messico, le vicende  politiche lo richiamano in Spagna dove l’attende il martirio.

Germano Perez  (7 settembre 1898-23 luglio 1936; 38 anni, sacerdote)  E’ il superiore della comunità martire. Entra quattordicenne nel  seminario passionista, ma dopo un anno è costretto a tornare in famiglia  per problemi cardiaci. Accurate visite mediche successive lo  dichiarano sano e può rientrare in seminario. Carattere umile e rispettoso,  professa i voti nel 1915. Nel 1920 è inviato a Roma per  proseguire gli studi e la formazione. Il 23 settembre 1923 è ordinato  sacerdote nella basilica dei Santi Giovanni e Paolo, vicino al santo  fondatore. Nel gennaio del 1924 è a Cuba dove lavora indefessamente.  Ricco di doti intellettuali, tiene alla radio apprezzate conferenze riguardanti  soprattutto la dottrina sociale della Chiesa. Zelante e ottimo  predicatore lascia trecentotrentotto discorsi redatti con meticolosa  cura e grande proprietà. Nel 1935 torna in Spagna perché  viene eletto superiore di Daimiel. Prevedendo il peggio suggerisce  di trasferire i giovani studenti a Zaragoza. “Se mi arrestano, dice,  voglio morire con l’abito passionista”.

Ildefonso Garcia  (15 marzo 1898-23 ottobre 1936; 38 anni, sacerdote)  Incontra i missionari passionisti ed entra nel loro seminario all’età  di quattordici anni. Durante il noviziato ha qualche problema di  salute, ma “per la sua condotta integerrima viene ammesso all’unanimità”  alla professione che emette nel 1914. Contento della vita abbracciata,  si sente “nell’anticamera del paradiso”. Dal 1920 al 1923  studia a Roma. Celebra la prima messa a Daimiel nel 1924. Viene impegnato  nella formazione, nell’insegnamento, nella predicazione e nel  compito di superiore. Sacerdote umile e disponibile. Sogna di andare  missionario all’estero e sembra ormai sul punto di partire. Sarà invece  il direttore martire di studenti martiri. “Beato lui! Noi avevamo la  palma del martirio e ci è sfuggita”, dirà quando gli comunicano che il  suo studente Fulgenzio Calvo è morto. Lui avrà ancora tre mesi di  vita e poi sarà ucciso. Gravemente ferito dopo la prima fucilazione,  scende dal letto per assistere uno dei persecutori moribondo.

Filippo Valcobado  (26 maggio 1874-23 luglio 1936; 62 anni, sacerdote)  Gli hanno descritto molto austera la vita passionista, ma lui a  quindici anni vuole entrare ugualmente in seminario. Tornando in  paese, già sacerdote, dirà: “Se dovessi scegliere ancora per mille volte  una congregazione, sceglierei sempre i Passionisti”. Professa nel 1890,  è ordinato sacerdote nel 1897. Eccessivamente timido, trova difficile  dedicarsi alla predicazione; possiede però ottime doti di prudenza  e di consiglio. Per molti anni è superiore e consultore provinciale.  Lavora anche a Cuba e in Messico. Nel 1925 partecipando a Roma  al capitolo generale ha l’opportunità di accostarsi ancora di più alla  spiritualità passionista: assiste alla beatificazione di Vincenzo Strambi,  visita la culla della congregazione al Monte Argentario, prega sulla  tomba di san Gabriele. E’ ricercato come direttore spirituale e confessore.  E’ lui, in un certo senso che prepara i confratelli al martirio:  a Daimiel infatti è il padre spirituale degli studenti da sette anni. E’  il più anziano dei martiri.

Gianpietro Bengoa  (18 giugno 1890-25 settembre 1936; 46 anni; sacerdote)  Entra in congregazione a diciassette anni; a diciotto emette la  professione religiosa. Per proseguire gli studi, nel 1910 è inviato in  Messico. A causa della rivoluzione, durante la quale soffre anche il  carcere, è costretto ad emigrare negli Stati Uniti. Continua gli studi  a Chicago dove è ordinato sacerdote nel 1916. Dopo un breve  apostolato a Cuba viene richiamato in Spagna con l’incarico di direttore  degli studenti. Torna poi in Messico come superiore di  Toluca. Ancora in Spagna come vicesuperiore e superiore. Nel 1932  è a Daimiel con il compito di vicesuperiore della comunità. La sua  salute è precaria; per i reumatismi è costretto ad usare il bastone. Si  attira subito la stima di tutti per la sua indole buona e per la sua  disponibilità. E’ apprezzato dagli stessi “rossi”. Il 6 agosto invia a  Roma il seguente telegramma: “Comunico la morte di tutti i miei  compagni insieme a quella di Niceforo, avvenuta il giorno 22 del  passato mese. Juan Pedro”. L’Osservatore Romano pubblica la notizia  il 20 agosto.

Pietro Largo  (19 maggio 1907-25 luglio 1936; 29 anni, sacerdote)  Da bambino è impegnato dai genitori contadini a pascolare il  gregge. A quattordici anni entra in seminario. Anche se non ha terminato  gli studi richiesti, “avendo sempre tenuto una condotta  irreprensibile”, viene ammesso al noviziato e all’età di diciotto anni  professa i voti. Riprende gli studi ma incontra notevoli difficoltà.  Spesso gli consigliano di lasciare i libri per lui davvero indigesti e  piantare tutto. Eventualità che Pietro neppure prende in considerazione.  Vuole essere sacerdote ad ogni costo. Ci riuscirà: è ordinato  infatti nel 1932. Come tanti suoi confratelli progetta di andare missionario  in terre lontane. Il suo campo di apostolato invece sarà un  altro. E’ mandato a Melilla in Marocco come aiutante del cappellano  militare; vi resta un anno. Carattere riservato, semplice ed umile.  Di lui, purtroppo, non rimangono né lettere né scritti: tutti i suoi  quaderni scompaiono durante la guerra civile. Nel dicembre del 1935  è inviato a Daimiel. Sarà martire dopo pochi mesi.

Giustiniano Cuesta  (19 agosto 1910-23 ottobre 1936; 26 anni, sacerdote)  Bambino di undici anni, nel 1921 entra in seminario portando  con sé il desiderio della vita missionaria. Prima della partenza si  reca a chiedere protezione alla Madonna in un santuario a lei dedicato.  Per arrivarvi attraversa a piedi scalzi monti e dirupi. In seminario  va avanti nonostante una leggera balbuzie. Professa nel 1928.  Si conservano tre suoi quaderni nei quali sono annotati spunti e  curiosità utili per la futura vita missionaria. Dirige una rivista dello  studio teologico nella quale scrive, tra l’altro, la cronaca della sua  ordinazione sacerdotale avvenuta nel 1934. L’anno successivo è a  Daimiel come insegnante di greco. Estroso e di facile comunicativa  si attira la simpatia dei bambini del paese dove diventa popolarissimo.  Coltiva una particolare devozione all’Eucaristia. Dopo la pri-  ma fucilazione a Manzanares compone dei versi nei quali esprime  il desiderio di morire per Cristo e li canta sulla musica di una nota  canzone popolare.

Eufrasio De Celis  (13 marzo 1915-23 ottobre 1936; 21 anni, studente)  Nel 1931, a causa della situazione politica, deve lasciare il seminario  e tornare in famiglia. Ma pur prevedendo il peggio, ritorna  ancora in convento. Quando gli arriva la lettera con la notizia del  prossimo rientro, lui sta cenando. “Per la gioia butta in aria il cucchiaio  ed è così felice che non vuole continuare a mangiare”. Scrivendo  al papà sul finire del 1935, dice: “Io credo che il prossimo  anno sarà tragico per la Spagna”. Ma lui non vacilla. Già nel 1930  ha scritto che desidera “la grazia di essere un vero discepolo di Cristo  e spargere il sangue come suo martire”. Eppure ha i suoi problemi.  Quando entra in seminario è ancora un bambino, ha dodici anni  e pur essendo contento piange per quindici giorni. Ancora difficoltà  prima del noviziato, ma poi tutto è superato. Professa i voti nel  1932 e poi riprende gli studi con grande gioia. Ama i fiori e coltiva  con particolare affetto la “passionaria”. E’ ucciso il giorno del quarto  anniversario della sua professione religiosa.

Maurilio Macho  (15 marzo 1915-23 luglio 1936; 21 anni, studente)  Entra in seminario nel 1927. Fragile di salute, ma ha una volontà  di ferro. Supera così anche le difficoltà nello studio che per lui non  sono poche. “Molti, scrive, credono che lo studio non sia un lavoro; io  so per mia esperienza che è più pesante di quello che molti pensano”.  Costretto a tornare in famiglia per la situazione politica, semina meraviglia  per la sua bontà e sogna sempre la vita passionista. Non si  riesce a fermarlo. “Anche se mi ammazzassero per Gesù Cristo, ritor-  nerò in seminario”, è il suo ritornello. Emessa la professione nel 1932,  riprende la lotta con i libri. Ma ha davanti la prospettiva del sacerdozio  che ne fortifica la volontà. E’ amato per la sua semplicità da bambino.  Un compagno scrive: “Quando, a volte, gli dicevamo di considerarlo  un bambino, rispondeva con le parole di Gesù: Se non diventerete  come bambini non entrerete nel regno dei cieli”. Lui vi è entrato con la  semplicità del bambino e con la fortezza del martire.

Tommaso Cuartero  (22 febbraio 1915-23 ottobre 1936; 21 anni, studente)  Dal seminario diocesano dove resta dal 1927 al 1930, all’età di  quindici anni passa a quello passionista. Tutto avviene per il bene  operato da una missione predicata da due religiosi passionisti al  suo paese nella quaresima del 1930. Nasce così nel suo cuore il desiderio  di diventare come loro per andare ad annunziare il vangelo e  convertire le anime. Va avanti con soddisfazione unanime, veste l’abito  nel 1932 e l’anno successivo emette la professione religiosa. Ha un  carattere portato alla riflessione e alla contemplazione. Riprende gli  studi sognando sempre la vita missionaria. Chissà perché lui vuole  andare in Tanganica (l’attuale Tanzania). Scrive ai suoi: “Cercate di  stare bene per molti anni e così mi vedrete predicare. E chissà che  non possa essere nel nostro stesso paese? Che gioia vedere Tommaso  predicare nel suo paese”. Per la cattiveria degli uomini non salirà il  pulpito del paese. Parlerà con la voce del martirio al mondo intero.

Giuseppe Maria Cuartero  (29 aprile 1918-23 ottobre 1936; 18 anni, studente)  E’ il fiore più fresco reciso dall’odio. Il più giovane dei martiri.  Appena 18 anni. E’ ucciso a un anno esatto dalla professione religiosa.  E’ fratello di Tommaso. Entra con lui nel seminario passionista.  Per un po’ di tempo le loro strade si dividono. Giuseppe Maria ve-  ste l’abito nel 1934 e professa i voti religiosi nel 1935. A differenza  del fratello ha un carattere estroverso, allegro e aperto. Si attira la  simpatia di tutti. Dopo la professione riprende gli studi a Daimiel e  si ritrova con Tommaso. Si fa subito vivo con i genitori: “Scrivo per  manifestarvi la gioia che sento nell’essere unito a Dio con i voti religiosi  e nel trovarmi in questa santa casa”. Le strade dei due fratelli  non si separeranno più. Il 23 luglio quando i religiosi si dividono  in gruppi disperdendosi in più direzioni, Giuseppe Maria e Tommaso  si ritrovano nello stesso gruppo. Nella prima fucilazione restano  ambedue soltanto feriti. Portati all’ospedale, saranno uccisi insieme  il 23 ottobre.

Giuseppe Estalayo  (1 marzo 1915-23 luglio 1936; 21 anni, studente)  A tredici anni entra in seminario seguendo il fratello maggiore  Alfonso. Quest’ultimo non subirà il martirio solo perché cinque giorni  prima della tragedia, a causa della sua malattia, viene trasferito in  un altro convento. Diventerà sacerdote ed eserciterà un lungo  apostolato in Spagna, Cuba, Messico, Venezuela. Anche Giuseppe  avrà qualche problema di salute, ma per quanto riguarda la condotta  “le informazioni non possono essere migliori… Nessuno si è mai  lamentato di lui”. Tornato in famiglia per un breve periodo a causa  della difficile situazione politica, la sua vocazione si rafforza. Veste  l’abito religioso nel 1932 ed emette la professione nel 1933. Nel 1934  è a Daimiel per proseguire gli studi. Vuole imitare ad ogni costo san  Gabriele dell’Addolorata. Anche lui, come il giovane confratello,  nei momenti di difficoltà dice a se stesso: “Non vorrai vincerti per  amore di Maria?”. Fu scritto di lui: “Anima ingenua e semplice, il  Signore si affrettò a trapiantarla nei giardini del suo Regno… Rimase  fedele ai voti senza infrangerli minimamente in maniera avvertita”.  Si distingue per una grande devozione all’Eucaristia, al Crocifisso  e alla Madonna.

Giuseppe Osés  (29 aprile 1915-23 luglio 1936; 21 anni, studente)  Pochi giorni prima di morire scrive a casa: “Anch’io dovrò morire,  ma non temete perché muoio contento sapendo che tu (si rivolge  alla sorella), papà ed io apparteniamo al numero delle anime grandi”.  La vita di Giuseppe è segnata da una profezia fatta alla sua mamma  da una zia monaca passionista. “Avrai otto figli, le disse, ed uno  morirà martire”. Il 14 maggio 1936 Giuseppe scrive alla famiglia:  “Potete essere orgogliosi di avere presto un figlio martire in cielo”.  Bambino, ogni mattina va nei campi a cogliere i fiori per la Madonna  ed è particolarmente sensibile verso i poveri. Entra in seminario  nel 1928 portandosi nel cuore il desiderio di grandi cose nutrito da  sempre. Veste l’abito nel 1932 e professa l’anno seguente. Molto intelligente,  riesce bene specialmente nella filosofia. E’ ucciso a  Carabanchel Bajo a pochi passi dall’abitazione di sua sorella. Attraversando  Ciudad Real, da un edificio gli scagliano contro un mattone  ferendolo gravemente alla testa.

Giulio Mediavilla  (7 maggio 1915-23 luglio 1936; 21 anni, studente)  Due vocazioni ormai adulte alla vita passionista nate nel suo  paese, fanno sbocciare anche in lui, ancora ragazzo, il desiderio di  entrare in seminario. Desiderio che si concretizza quando Giulio ha  da poco superato i tredici anni. Veste l’abito nel 1932; per tre mesi  soffre una grande tristezza. Superata la prova si ritrova più gioioso  che mai e nell’ottobre del 1933 professa i voti religiosi. Cresce abituato  al sacrificio lui che, nato in montagna, fin da piccolo ha lavorato  nei campi con i genitori contadini. Non lo spaventa la prospettiva  sempre più concreta del martirio. Non incontra nessuna difficoltà  nello studio. E’ di costituzione fisica delicata. Lo ricordano  “riservato, umile, silenzioso, paziente”. Nel tempo libero studia  meccanografia. Nel febbraio del 1936 inizia le pratiche per il servi-  zio militare obbligatorio. Risulta alto un metro e sessanta. Lui ci  scherza su: “Non è gran cosa vero? Ma che vogliamo fare: ognuno  si contenta di quello che Dio gli dà”.

Felice Ugalde  (6 novembre 1915-25 luglio 1936; 21 anni, studente)  Un suo zio passionista è missionario in Messico. Il piccolo Felice  vuole essere come lui. Non lo ferma nessuna difficoltà, e a dodici  anni lascia la famiglia. Prima di vestire l’abito, scrive: “Quanta gioia,  quanta contentezza poter vestire il santo abito passionista! E’  una felicità meravigliosa, non inferiore a quella dei re”. Quando arriva  al noviziato esaminando il suo passato annotano: “La condotta di  Felice in seminario fu irreprensibile; era molto stimato per applicazione  e serietà”. Professa nel 1933; nel 1934 è trasferito a Daimiel.  Conosciuta l’uccisione dei confratelli nelle Asturie, confida ai genitori:  “Beati loro che sono martiri. E’ una grande grazia di Dio poter  spargere il sangue per testimoniare Cristo”. Il papà ha da tempo  messo da parte bottiglie di vino per la prima messa di Felice. Non  avrà la gioia di vivere quel giorno tanto atteso; sarà però orgoglioso  del figlio che non rinnega Cristo neppure a costo della vita.

Giuseppe Maria Ruiz  (3 febbraio 1916- 23 luglio 1936; 20 anni, studente)  Qualche mese prima del martirio ha scritto alla mamma: “Il Signore  deve aumentare la nostra fede per la quale dobbiamo essere  pronti a morire”. Di una ottima intelligenza, da piccolo ottiene a  scuola un diploma di onore; in seminario, dove entra nel 1929, gli  fanno saltare un anno. Ha la sensibilità di un poeta; pubblica le sue  poesie su una rivista edita dai Passionisti spagnoli. Non mancano  motivi per nutrire rosei progetti sul suo futuro, considerando soprattutto  il suo amore alla vocazione e il suo impegno spirituale. Il  maestro del noviziato sintetizzerà dicendo: “Di pari passo con le  sue preziose doti intellettuali, andavano quelle morali che gli meritarono  la stima di tutti”. Veste l’abito nel 1932 e professa nel 1933.  Scrivendo alla famiglia esprime sempre la sua gioia di essere  passionista e la decisione di proseguire nella vita abbracciata. Fisicamente  appare debole. Ma per il martirio gli basta la forza interiore.  Che è decisamente grande.

Fulgenzio Calvo  (16 gennaio 1917-23 luglio 1936; 19 anni, studente)  Entra in seminario a undici anni, insieme ad altri ragazzi del  suo paese che hanno fatto la stessa scelta. Non manca un po’ di comprensibile  nostalgia, ma è deciso ad andare avanti, contento della  vocazione alla vita passionista. Nel 1932 veste l’abito religioso e nel  1933 emette i voti. Di lui dicono sempre che è “esemplare e studioso;  di comportamento edificante; di buon talento, e di assidua applicazione;  docile, fervoroso, semplice, paziente, sincero”. Scrive alla  famiglia: “Sono molto grato al Signore per avermi chiamato allo stato  religioso. Nel convento si respira pace e tranquillità. Come se fossimo  un cuor solo, una sola anima. Siamo tutti fratelli in Cristo… Mi  trovo bene e sono molto contento. Voi andate spesso sul Calvario e  lì accompagnate Gesù nella sua morte in croce”. E sul Calvario sosta  sempre Fulgenzio. A Daimiel ci sono alcuni suoi parenti. Per lui  sarebbe facile rifugiarsi nella loro casa. Ma resta fedele a Cristo fino  al martirio. Lo ha scelto da sempre.

Onorino Carracedo  (21 aprile 1917-23 ottobre 1936; 19 anni, studente)  Fratello di altri due religiosi passionisti. Di carattere allegro e  gioviale, spontaneo e vivace entra in seminario a undici anni. La  nostalgia per la famiglia si fa sentire, ma l’ideale del sacerdozio e  della vita passionista lo affascina sempre più. Va avanti nello studio  sognando la vita missionaria per la quale ha tutte le doti: possiede  una buona intelligenza, ha una voce eccellente, ama il canto,  sa suonare, sprizza entusiasmo da vendere. Veste l’abito passionista  nel 1932 ed emette i voti nel 1933. “E’ inspiegabile la gioia che sento  nel vedermi già tutto di Gesù”, afferma. Ricoverato in ospedale  dopo la prima fucilazione, dice a chi gli cura le ferite: “Non preoccuparti  di farmi male; io sono Passionista”. Ha un braccio spezzato  e sono sul punto di amputarlo. Onorino si oppone perché, dice, vuole  essere missionario e nelle prediche gli serve anche il braccio. L’odio  lo uccide. Ma lui, Onorino, parla ancora con la testimonianza della  sua vita e del suo martirio.

Laurino Proaño  (14 aprile 1916-23 luglio 1936; 20 anni, studente)  Cresce con una grande devozione alla Madonna. Laurino fin da  piccolo si reca spesso ad un vicino santuario mariano; funge anche  da chierichetto. Attratto dall’ideale passionista entra in seminario  nel 1928. Nel momento di rientrare in seminario dopo le vacanze  obbligate del 1931 non manca chi vuole dissuaderlo, ma lui risponde  deciso: “Torno in convento per essere sacerdote passionista, anche  se dovessi morire martire”. La vigilia della professione, emessa  il 23 ottobre 1935, scrive al fratello: “Come è bello unirmi a Gesù  crocifisso con i legami forti e amorosi dei quattro voti. Sento in me  un non so che difficile da spiegare: sono la pace e la gioia che mi  inondano l’anima al pensiero che domani vado a inchiodarmi con  Gesù sulla croce. Dovresti trovarti in simili circostanze per capire  quello che dico. Prega per me il Signore”. Arriva a Daimiel nel novembre  1935. All’orizzonte già si avvertono avvisaglie di morte. Un  parente lo invita insistentemente a tornare a casa. Ma lui risponde  deciso: “Sarei felicissimo di morire martire”. Corona il suo sogno  dopo qualche mese.

Epifanio Sierra  (12 maggio 1916-23 luglio 1936; 20 anni, studente)  Bambino vivace a volte anche troppo, entra in seminario nel 1929.  Si mette subito al lavoro con tutto l’impegno. Quando torna in paese  per le vacanze del 1931 è diventato decisamente un altro. Un testimone  oculare dirà: “Epifanio era cambiato in modo sorprendente;  il paese rimase meravigliato; da appena due anni si trovava in  seminario ed ora tornava completamente trasformato”. Durante la  permanenza in famiglia, Epifanio confida allo stesso testimone:  “Quando mi trovo solo con le pecore, mi metto in ginocchio e senza  nessun rispetto umano prego per il paese e per tornare in seminario.  Desidero molto essere un giorno missionario”. Tornato in seminario,  riprende il cammino verso il sacerdozio. Veste l’abito nel 1934  e professa nel 1935. Un giorno mentre i novizi vanno a passeggio  vengono insultati da alcuni ragazzi. I novizi, del gruppo fa parte  anche Epifanio, profetizzano: “I loro genitori ci uccideranno; sì certamente  ci uccideranno. E noi saremo martiri”.

Abilio Ramos  (22 febbraio 1917-23 luglio 1936; 19 anni, studente)  A tredici anni lascia la famiglia per il seminario. Il ragazzo soffre  di una precoce sordità, ma per il resto non dà preoccupazioni:  nello studio ottiene buoni risultati; soddisfa soprattutto il suo amore  alla vocazione. Da casa gli comunicano la partenza della sorella  per il monastero. Abilio le scrive: “Non so come manifestare la gioia  che la mia anima prova nel sapere che hai abbandonato il mondo.  Sapessi com’è dolce la vita nel convento… D’ora in avanti tutta la  nostra vita deve essere un inno di ringraziamento a Dio. Non far  passare nemmeno un giorno senza ringraziare il Signore e Maria  per la vocazione”. Veste l’abito nel 1934 e professa nel 1935. Comunica  così la sua professione: “Sebbene ne sia indegno, Gesù vuole  che io lo segua: lo accompagnerò con la mia croce fino al Calvario”.  Quando gli dicono che è scoppiata la rivoluzione commenta: “Dio  che ci ha dato la vocazione, ci darà sicuramente la grazia per tutto,  non escluso il martirio”.

Zaccaria Fernandez  (24 maggio 1917-23 luglio 1936; 19 anni, studente)  La mamma implora dal cielo la vocazione passionista per qualcuno  dei figli. Il Signore sceglie Zaccaria. Proprio lui, il più vivace e  focoso della nidiata? si sorprende la signora. Sì, proprio lui, che risponde  prontamente al Signore e a dodici anni entra in seminario.  Spingendo lo sguardo neppure troppo lontano, prevede giorni difficili  ma non trema: “Che ci ammazzino pure. E per chi dobbiamo  morire se non per Gesù Cristo?”. Veste l’abito nel 1934 e professa  nel 1935. Non avrà ripensamenti. “Sono contentissimo. Sono il più  ricco e il più felice di tutti. Non possiedo niente ma ho tutto. Non  invidio nessuno mentre forse molti invidieranno me”. La costante  prospettiva del martirio non lo spaventa. “Prepararsi a quello che  verrà, scrive. Ci possono uccidere? Andremo più presto al cielo”. E  meno di due mesi prima di morire: “La mia anima è immersa nella  pace più grande nonostante le persecuzioni. Vediamo se Dio vuole  che qualcuno sia martire. Felice a chi tocca”. Tocca a lui: e la sua  gioia raggiunge il culmine.

Paolo Maria Leoz  (17 febbraio 1882-25 settembre 1936; 54 anni, religioso fratello)  Nato in una famiglia molto religiosa (ha un fratello passionista  e due sorelle monache di clausura), fin da piccolo aiuta il padre nel  lavoro dei campi. A venticinque anni si prepara ad emigrare in America  in cerca di un altro lavoro; prima però si reca a salutare il fratello,  già passionista. Partirà non più per l’America ma per il convento  anche lui. Ha ventisei anni. Non è entrato prima, dirà lui stesso,  perché non si sentiva degno della vocazione religiosa. Veste l’abito  nel 1908 e professa nel 1909. Nelle comunità svolge l’ufficio di ortolano,  questuante e portinaio. Subisce l’intervento chirurgico ad una  gamba che non guarirà mai completamente. Nel 1929 è inviato a  Daimiel come portinaio. In portineria edifica tutti; accoglie tutti con  dolcezza distribuendo elemosina e parole di fede. Molto tempo della  notte lo passa in preghiera ed ha la fama di essere un santo. E’ lui  che apre le porte del convento ai rivoluzionari, quando i religiosi  iniziano il calvario di croce e di gloria.

Benito Solana  (4 gennaio 1898-25 luglio 1936; 38 anni, religioso fratello)  Ragazzo vivace ed anche irrequieto, è l’ultimo di quattro fratelli.  Nonostante l’opposizione dei genitori a undici anni entra tra i  Passionisti. Ancora un ostacolo quando si mette a studiare. Lo supera  chiedendo di essere ammesso come religioso fratello. Vive qualche  difficoltà durante il noviziato ma può emettere la professione  nel 1914. Viene destinato subito a Daimiel come cuoco e sarto. Nel  1919 è nella comunità religiosa a Santa Clara (Cuba). Nel 1922 è  trasferito in Messico. La rivoluzione e la persecuzione di Plutarco  Calles contro la Chiesa lo costringono a tornare in Spagna. Qui è  impegnato in vari uffici per il buon andamento della comunità religiosa:  questuante, infermiere, sarto. Ama la bellezza, la pulizia e  l’ordine. Tratta con squisita carità i malati, pronto a vegliarli durante  la notte a costo di qualsiasi sacrificio. Arriva a Daimiel ai primi di  luglio del 1936: dopo pochi giorni celebrerà il suo martirio.

Anacario Benito  (23 settembre 1906-23 luglio 1936; 30 anni, religioso fratello)  Vive la sua vocazione passionista come fratello, contento di dedicare  la vita al Signore ed alla comunità nei lavori manuali. Prima  della professione religiosa avvenuta nel 1922, non mancano difficoltà  di vario genere superate con grande spirito di fede. Lavora  nell’orto ed è sempre pronto alle varie riparazioni che si rendono  necessarie in convento soprattutto per la presenza dei giovani  seminaristi e degli studenti. Nel 1928 viene inviato a Daimiel dove  resterà fino alla morte. Nel 1931 assiste all’incendio del magazzino  e degli arnesi da lavoro provocato dai rivoluzionari. Lui prosegue  nella sua fedeltà alla vocazione, anche se l’orizzonte per il precipitare  degli eventi politici diventa sempre più fosco. Ama il lavoro e  lo compie con amore. “La sua vita interiore, dirà chi visse con lui  negli ultimi anni, si manifestava nel comportamento di buon religioso  e nella fedeltà alla vita comune, specialmente nel grande interesse  nel servire più messe che poteva. Mostrava gioia nello stare  con i confratelli. Amava la solitudine”.

Filippo Ruiz  (10 marzo 1915-23 luglio 1936; 21 anni, religioso fratello)  E’ il cuoco della comunità di Daimiel. Entra in seminario a dodici  anni. E’ allegro e impegnato nello studio. Sembra tutto procedere  bene, ma ad un certo punto i libri diventano troppo pesanti  per lui e i risultati lasciano a desiderare. Nessun problema per Filippo:  sarà religioso fratello. Non mancano i difetti tipici della sua  età, ama lo scherzo ed è loquace forse più del dovuto. Non è immune  da un pizzico di vanità. Ma ha tanta buona volontà e si impegna  per correggersi appena viene avvertito degli sbagli. E’ affabile, altruista,  non rifugge dal sacrificio. Emette la professione religiosa  nel 1932. L’anno successivo è inviato a Daimiel dove svolge varie  mansioni: sarto, calzolaio, portinaio, e soprattutto cuoco. Di costituzione  robusta, lavora con amore ed entusiasmo giovanile. Una  vera benedizione per la numerosa comunità. Nel febbraio del 1936  viene chiamato per il servizio militare. Ma non partirà. Il martirio  arriverà prima.