Vincenzo Maria Strambi
Figlio del farmacista Giuseppe Strambi e di Eleonora Gori, Vincenzo nasce a Civitavecchia (Roma) il primo gennaio 1745. Dai genitori eredita una fede schietta e quel singolare amore verso i poveri che lo seguirà per tutta la vita. Il padre colma di consistenti elargizioni la confraternita del nome di Gesù cui è iscritto; condona spesso debiti ed ha depositato una considerevole somma per l’educazione e il futuro delle giovani bisognose.
Vincenzo non è da meno. Il papà anzi ne deve spesso frenare l’eccessiva prodigalità. La madre vede con gioia la vocazione sacerdotale del ragazzo; non così il padre che, pur cristiano irreprensibile, coltiva ben altri progetti su quel suo unico figlio (due fratellini ed una sorellina rallegrano per pochissimo tempo la famiglia Strambi e poi se ne tornano velocemente in cielo). Entrato nel seminario di Montefiascone (Viterbo), Vincenzo vi inizia la formazione filosofica, teologica e biblica attirandosi l’ammirazione di superiori e condiscepoli per la vivace intelligenza e per la distinta pietà. Si trasferisce a Roma e poi a Viterbo per perfezionarsi nella sacra eloquenza e in altre discipline. Al padre dice che l’unica sua eredità è il Crocifisso: destini quindi ad altri il patrimonio familiare. Ordinato suddiacono a ventuno anni, è chiamato dal vescovo di Montefiascone al compito di prefetto del seminario, compito che Vincenzo esercita facendosi benvolere da tutti.
Ma non lascia di studiare convinto che scienza e santità sono essenziali per la missione sacerdotale. Alla verdissima età di ventidue anni è nominato rettore del seminario di Bagnoregio (Viterbo). Il 29 dicembre 1767, prima ancora di compiere ventitré anni, è ordinato sacerdote. Avvertendo sempre più chiara la vocazione alla vita religiosa chiede di entrare prima tra i Padri della Missione e successivamente tra i Cappuccini. I primi non l’accettano perché fragile di salute, i secondi perché figlio unico. A Civitavecchia durante una missione Vincenzo ha conosciuto Paolo della Croce ed è restato affascinato dalla sua santità e dal suo ardore missionario. Lo ha rivisto nel convento di Sant’Angelo di Vetralla (Viterbo) dove si è raccolto in esercizi spirituali in preparazione al sacerdozio. Nella circostanza si è intrattenuto con lui in affabile colloquio. Chiede quindi di entrare tra i Passionisti. Nel 1768, giovanissimo sacerdote, è accolto dallo
stesso Paolo. Ma prima ha dovuto superare grandi difficoltà suscitate dal padre che già a malincuore lo aveva visto partire per il seminario e che non riesce ad assorbire uno strappo ancora più duro. Il signor Giuseppe scrive allo stesso fondatore manifestando tutto il suo disappunto. Si rivolge anche al cardinale Giacomo Oddi, vescovo di Viterbo, perché convinca il figlio a lasciare il Monte Argentario (Grosseto), dove il giovane è già novizio con il nome di Vincenzo Maria. Ma inutilmente. Alla fine il padre si rassegna e stringe rapporti amichevoli con Paolo. Emessa la professione religiosa il 24 settembre 1769, Vincenzo inizia a predicare esercizi spirituali al clero e missioni al popolo per cui rivela spiccate attitudini. Ma presto è costretto a ridurre le predicazioni. Nel 1773 infatti è chiamato a Roma, nella casa generalizia dei Santi Giovanni e Paolo, con il compito di insegnante e direttore degli studenti teologi. Vincenzo riserva particolari premure per i giovani, speranza della nuova congregazione. E’ attento alla loro salute, li guida spiritualmente, li forma nella sana teologia. E’ certamente tra i più grandi missionari del secolo. Per desiderio del papa predica spesso a Roma in chiese importanti e in momenti anche molto difficili. Per l’apertura dell’anno santo del 1775 Clemente XIV lo incarica di predicare al popolo romano nella chiesa di Santa Maria in Trastevere. La scelta si rivela felicissima. Tra gli uditori c’è lo stesso sommo pontefice. Sempre dal papa è chiamato a dettare più volte gli esercizi spirituali ai cardinali, ai vescovi, ai prelati della curia romana e della corte pontificia, al clero della capitale. Ormai lo conoscono tutti. Lo chiamano semplicemente “il predicatore passionista santo”. Le sue predicazioni sono spesso accompagnate da fatti prodigiosi. Ha il dono della profezia, legge l’interno dei cuori. Il 13 gennaio 1793 a Roma viene ucciso il diplomatico Ugo di Bassville, rappresentante della rivoluzione francese. Con il pretesto di visitare i monumenti, andava svolgendo attività sediziosa. Il popolo scende in piazza minaccioso e tumultuante per più giorni. Viene chiesto a Vincenzo, a nome del papa, di fare qualcosa.
Le parole di Vincenzo, ormai ben noto, scongiurano il peggio e ottengono l’effetto da tutti sperato. A lui ricorrono i papi per la soluzione di casi particolarmente delicati. Tanta è la fama di cui gode che, secondo autorevoli fonti, nel tormentato conclave di Venezia che elegge papa Pio VII, viene proposta anche la sua candidatura e cinque dei trentaquattro cardinali danno il proprio voto a lui, ancora semplice religioso passionista. All’interno della congregazione esercita l’ufficio di insegnante di teologia, direttore degli studenti. Ricopre l’incarico di superiore, di provinciale, di consultore generale. Ma si fa servo di tutti, si adatta agli uffici più umili prestandosi anche nei lavori della cucina e dell’orto. Non vuole alcuna distinzione. Ha capacità straordinarie per confortare gli afflitti e per suscitare fervore e devozione nel cuore dei confratelli e dei fedeli. Scrive anche alcuni testi scolastici e libri di contenuto spirituale. Degno di particolare nota il “Mese del Preziosissimo Sangue”, testimonianza e irradiazione diretta della spiritualità passionista. E poi il suo capolavoro: la mirabile biografia di Paolo della Croce. La scrive, come dice lui stesso, stando in ginocchio e dimorando nella cameretta abitata dal santo nel convento presso Sant’Angelo di Vetralla. Vi si legge la sua competenza di storico e teologo, ma soprattutto uno straordinario afflato spirituale. Caso raro: un santo, biografo di un altro santo. E’ postulatore della causa di Paolo; incarico che conserverà anche da vescovo. Eminente direttore spirituale, guida sia personalità di spicco che gente di modeste condizioni. Soltanto alcuni nomi: il fondatore dei missionari del Preziosissimo Sangue san Gaspare del Bufalo, la beata Anna Maria Taigi, la venerabile Maria Luisa Maurizi, la venerabile Maria Clotilde Adelaide di Savoia, moglie di Carlo Emanuele IV re di Sardegna. Vincenzo entra anche nella conversione di Paolina Bonaparte sorella minore di Napoleone. Donna tanto bella quanto depravata, dopo un colloquio con lui cambia vita dedicandosi ad opere di bene. Nel 1801 Pio VII lo nomina vescovo di Macerata e Tolentino. Vincenzo corre personalmente da lui per manifestargli il desiderio di restare in convento e di proseguire nella vita di missionario itinerante. Ma il papa non cede. Lo assicura: “Sappi che nessuno si è adoperato per farti eleggere; l’ho fatto io spontaneamente, per mia personale conoscenza, per ispirazione divina”. Vincenzo si rassegna. Consacrato il 26 luglio, il 31 parte per Macerata separandosi con “angoscia di spirito” dai confratelli. A Macerata inizia subito quel lavoro che rinnoverà il volto della diocesi. Appena giunto visita i parroci, le carceri, l’ospedale, i monasteri; organizza una missione popolare alla quale partecipa lui stesso. Vive una vita austera, penitente ed esemplare. Povero, i poveri saranno la sua cura costante. “I poveri sono i miei padroni, dice. Io non sono che il loro economo”. E’ coniata da lui la frase oggi abituale: “Sentire il clamore dei poveri. I poveri urlano, urlano; i poveri urlano, urlano”. Padre dolce ed esigente. Durante la visita pastorale vieta e ricusa feste e pranzi particolari.
Chi non si adegua paga una multa; la relativa somma viene devoluta ai poveri. Attenzioni continue riserva al seminario. Favorisce la vita religiosa. Santo, sprona tutti alla santità. Elimina scandali ed abusi: non teme di prendere duri provvedimenti quando il caso lo richiede. L’episcopio è aperto a tutti. Comprensibile l’apprensione di ognuno quando si diffonde la notizia di un suo possibile trasferimento. Se ne fa interprete il vicecommissario pontificio di Tolentino con una lettera alla Segreteria di Stato. Per la Chiesa intanto si addensano nubi minacciose. Nel 1805 Napoleone Bonaparte comincia ad occupare lo Stato pontificio. Le truppe francesi entrano anche a Macerata. Richiesto di giurare fedeltà all’imperatore, Vincenzo rifiuta, dichiarandosi fedelissimo al papa. Viene condannato all’esilio. Il 28 settembre 1808 Macerata saluta piangendo il suo vescovo, deportato prima a Novara e poi a Milano. Ma la sua santità ha modo di risplendere anche in esilio: Vincenzo conforta e incoraggia altri vescovi, esuli come lui. Lo chiamano “il vescovo passionista santo”. Niente di più normale quindi che diventi confessore richiesto, consigliere autorevole e ricercato sia da laici che da ecclesiastici. Predica spesso al clero, ai seminaristi, alle suore. Napoleone sopprime anche le congregazioni religiose. I Passionisti sono costretti a tornare ai propri paesi di origine. La prova è durissima. Vincenzo è vicino anche ai suoi confratelli godendo per l’occasione di particolari permessi avuti in segreto dal papa. Ma non dimentica la sua diocesi: la porta nel cuore, la segue con affetto. Ai poveri di Macerata fa arrivare segni tangibili del suo ricordo e del suo amore. Partendo da Macerata Vincenzo aveva detto che l’esilio sarebbe durato meno di sei anni; accade proprio così. Il tramonto di Napoleone restituisce la libertà alla Chiesa e il diritto di esercitare il proprio ministero ai vescovi. Vincenzo torna a Macerata il 14 maggio 1814 accolto con entusiasmo. Prima di giungervi si ferma ad Ancona dove si trova il papa Pio VII, anche lui reduce dall’esilio. I due si abbracciano commossi. Il papa due giorni dopo passa a Macerata: saluta il vescovo e lo elogia pubblicamente per la sua fedeltà, rendendo ancora più piena la gioia di tutti. Come facilmente prevedibile la diocesi ha risentito in modo evidente dell’assenza del suo pastore. Vincenzo deve iniziare nuovamente un’opera di ricostruzione morale e spirituale. Ha settanta anni e benché le forze siano ormai alla fine, non si risparmia. Coraggiosamente va incontro prima a Gioacchino Murat e poi al generale Federico Bianchi comandante delle truppe austriache: Macerata è salva per merito del suo vescovo. E chiamarlo “padre della città”, è il minimo che possano fare. Si reca personalmente tra malati e moribondi, colpiti da una terribile epidemia e dalla carestia, per portare i sacramenti ed una parola di conforto e di speranza. Per sfamare i poveri chiede l’elemosina ai nobili conosciuti a Milano durante l’esilio e vende gli oggetti preziosi della chiesa. Apre un ospizio per ex prostitute e un conservatorio per le giovani in pericolo. Si dice, e a ragione, che Vincenzo è per Macerata quello che san Carlo Borromeo era stato per Milano. Pur in mezzo a tante occupazioni, non lascia la predicazione di missioni ed esercizi spirituali; è richiesto con insistenza, accolto con gioia, ascoltato con rispetto e con grande venerazione. Provato dalle sofferenze, dagli anni e dal lavoro, più volte ha chiesto al papa di poter tornare in convento per prepararsi, pregando, alla morte. Richiesta mai accolta. “Basta la sua ombra per governare la diocesi”, rispondeva il papa. Alla fine Leone XII nel 1823 lo accontenta. Ma solo in parte. Lo vuole infatti nella sua residenza per spirituale conforto e come suo consigliere e confessore. Il 21 novembre 1823 Vincenzo lascia Macerata tra il pianto generale. Partendo confida: “Macerata l’ho sempre amata e ne sono stato riamato. Macerata la porto nel cuore”. Poi si sfila l’anello episcopale, lo consegna all’elemosiniere dicendo: “E’ l’unica cosa che mi rimane. Vendetelo e datene il ricavato ai poveri”. Il papa lo vuole a colloquio ogni giorno. Con lui va studiando una riforma della diocesi di Roma e di tutta la Chiesa. Lo venerano tutti. I cardinali incontrandolo si inginocchiano chiedendo la sua benedizione. Dal palazzo pontificio si reca quotidianamente nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo dove è stato consacrato vescovo: si ferma in preghiera sulla tomba del fondatore immergendosi in struggenti ricordi; si intrattiene in affabile colloquio con i confratelli. Alla fine, il gesto eroico della sua vita. Il sigillo della sua santità. Nel mese di dicembre il papa si ammala gravemente. Vincenzo è chiamato per amministrargli il viatico. E’ la mezzanotte del 23 dicembre 1823. Il dialogo è di quelli da ricordare. Il papa appena lo vede la abbraccia affettuosamente con le ultime forze rimaste e gli sussurra: “Vincenzo mio io credevo di farti santo, ma qualche altro pontefice lo farà”. E Vincenzo a lui: “Coraggio santità; il Signore non priverà la Chiesa del suo pastore in tempi così difficili. Vi è una persona che offre la vita per la vostra guarigione”. All’alba del giorno 24 Vincenzo celebra la messa e si offre vittima per la salute del sommo pontefice. Al termine della messa il papa sorprendentemente guarisce. Sarebbe vissuto, come predetto da Vincenzo, ancora cinque anni e quattro mesi. E’ lo stesso Leone XII che annota diligentemente la profezia. Vincenzo invece, ammalatosi all’improvviso, muore una settimana dopo, il primo gennaio 1824, giorno del suo settantanovesimo compleanno. Martire della carità e di altruismo. Sepolto nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, vicino al fondatore, viene dichiarato beato nel 1925 e santo nel 1950. Il 19 dicembre 1950 l’associazione dei postulatori generali lo elegge suo celeste patrono, volendo cosi onorare degnamente il primo postulatore elevato agli onori degli altari. Dal 1957 Vincenzo riposa nella “sua” Macerata, dove era stato pastore zelante e venerato per ventidue anni.