Categorie: Giubileo della Misericordia

Sostenere e consolare gli afflitti

La persona privata della salute o della libertà è oggetto di misericordia secondo la parola di Gesù: “Ero malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,36). L’amore per Dio, in questo brano di vangelo, è identificato con l’amore per i più piccoli, i più bisognosi. Una certa coerenza, dunque, impone di essere credenti non solo nella preghiera ma anche nella carità, dimostrando così di amare nella devozione il Dio che non si vede e nelle opere il fratello che si vede.

Più profondamente poi, le parole “ero malato, ero in carcere”, fanno risultare che l’uomo afflitto diviene egli stesso Gesù per chi si fa a lui prossimo, offrendo misteriosamente una ragione particolare di incontro con la croce di Cristo presente nella sua persona. Grande è questo mistero: per mezzo della croce, chi dona in qualche modo pure riceve.

Le ragioni dell’amore comunque devono superare anche le esigenze di coerenza e la ricerca di un qualsiasi contraccambio. La visita a una persona sofferente non può che essere una vera attenzione nei suoi confronti, lasciando a Dio di giudicare il merito e ridistribuire i suoi doni. Quando si incontra il malato o il carcerato, la sola disposizione richiesta è quella dell’intelligenza reale dei suoi bisogni, in modo da potervi rispondere al meglio.

Nel comportamento di Gesù vediamo che egli guarisce e libera gli oppressi. La salute e la libertà sono esigenze primarie, per queste si deve operare sia attraverso la preghiera sia attraverso le azioni possibili. I miracoli accadono e sono molti. Pregare perciò per la guarigione o la liberazione da qualsiasi schiavitù è possibile e richiede impegno. Tuttavia sappiamo bene che Dio non risolve lui tutti i problemi; chiama piuttosto noi ad operare in modo da realizzare il bene che manca. Costruire quindi una società più giusta, favorire un accesso ampio alle cure sanitarie, all’istruzione, al benessere, all’assistenza e al recupero sociale, sono soprattutto queste le vie per avere a cuore i più deboli.

L’amore è un valore eterno presso Dio, e nello stesso tempo un valore molto terreno poiché costruisce il giusto dove giustizia non c’è. L’amore per il prossimo andrebbe insegnato nelle scuole come il perno di una nuova rivoluzione sociale. Il vangelo tuttavia ci richiama a un certo realismo: “i poveri li avrete sempre con voi” (Mc 14,7). Pur bramando un mondo perfetto, siamo consapevoli che esso rappresenta un ideale mai raggiungibile veramente. Mentre però si combattono malattie e si favorisce l’emancipazione di ogni uomo, cresce ciò che non passa, cresce la carità nella dedizione ai più fragili. In una nota intervista disse Patch Adams, l’uomo che ha dedicato la sua vita al volontariato ricreativo negli ospedali: “Non saremo mai in grado di promettere a nessuno la guarigione, ma dovremo sempre promettere di prenderci cura di un paziente”. Molto note sono poi le parole tratte dal film a lui dedicato: “Se curi una malattia puoi vincere o perdere, se ti prendi cura di una persona vinci sempre”.

Al malato si può così portare conforto offrendo un senso alla sua malattia. Non come è successo a Giobbe, che è rimasto senza risposte e denigrato dagli amici. Il malato ha bisogno di ascolto, ha bisogno che si agisca con pazienza nei suoi confronti. In questo modo lo si conforta e lo si può risollevare. La malattia è un’occasione per partecipare della sofferenza di Cristo. Solo in Cristo infatti la sofferenza acquista un senso, poiché Cristo ha preso la croce per noi e con noi.

A chi è in carcere invece si deve dare fiducia. Un condannato per qualsiasi reato, un condannato che ha sbagliato, è un uomo che deve ricominciare da capo, ed è un uomo che ha bisogno di fiducia. Il carcerato può disperare della propria condizione, può sentire un opprimente senso di colpa, può provare la mancanza di senso dei suoi giorni. La fede può invece dare speranza, senso e libertà dovunque.

L’afflizione ha ragioni di dolore corporeo ma anche ragioni spirituali e mentali. Consolare vuol dire assumere le ragioni del sofferente. Prestare attenzione, infondere coraggio, riempire il vuoto della solitudine. È afflitto infatti soprattutto chi è abbandonato. Il dolore non deve essere evitato, un motivo di imbarazzo da cui fuggire. Il dolore deve essere assunto, compreso, risollevato. Questo, intendiamo bene, è un servizio al contempo umano e divino. Non si tratta infatti di offrire semplicemente la propria spalla ma della possibilità di mediare il consolatore. Dio è il consolatore a cui condurre l’afflitto. “Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione”. E consola e aiuta davvero il prossimo solo chi porta coerentemente su di sé la propria croce. “Come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così per mezzo di Cristo abbonda anche la nostra consolazione” (cfr 1Cor 1,3-7).