Gesù dichiara beati, felici uomini e donne che vivono determinate situazioni e assumono comportamenti precisi, in grado di rendere pieno di senso il loro cammino umano sulla terra e, per quanti hanno il dono della fede, in grado di raddrizzare il loro cammino verso la comunione con Dio.
La sapienza di Gesù nelle sue parole
È giunto il momento di cominciare ad ascoltare l’insegnamento di Gesù nel Vangelo di Luca, la grande sapienza contenuta nelle sue parole. Lui del quale si è potuto dire: “Mai un uomo ha parlato così!” (Gv 7,46). Un ottimo punto di partenza è il cosiddetto “discorso della pianura” (cf. Lc 6,17-49). No, non c’è nessun errore in questo titolo. Molti infatti ricorderanno il più lungo “discorso della montagna”, nel parallelo del Vangelo di Matteo (cf. 5,1-7,29). In Luca, invece, Gesù tiene il suo discorso, più breve ma altrettanto denso, “in un luogo pianeggiante” (Lc 6,17) della Giudea, circondato da una grande folla di discepoli, dopo essere stato in solitudine sul monte per una notte di intensa preghiera.
Beati!
“Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio” (Lc 6,20). Il discorso si apre con questa e altre tre beatitudini, rivolte rispettivamente agli affamati, a coloro che piangono e ai perseguitati. In continuità con l’insegnamento dei profeti e dei sapienti del Primo Testamento, Gesù proclama apertamente delle proposte di felicità: dichiara beati, felici uomini e donne che vivono determinate situazioni e assumono comportamenti precisi, in grado di rendere pieno di senso il loro cammino umano sulla terra e, per quanti hanno il dono della fede, in grado di raddrizzare il loro cammino verso la comunione con Dio.
Ora, va detto con chiarezza: le beatitudini non predicano la felicità del povero (in vari modi) in quanto tale, ma annunciano che in Gesù, il quale ha abitato e interpretato mirabilmente la condizione di povertà, queste situazioni non hanno l’ultima parola, non hanno la forza di uccidere la speranza, ma possono diventare esperienza del Regno e apertura a esso. È quello che Gesù ha espresso altrove, sempre servendosi del linguaggio delle beatitudini, con una forte autocoscienza che è per noi fonte di stupita adesione a lui: “Beato colui che non trova in me motivo di scandalo, di inciampo” (Lc 7,23); “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono” (Lc 10,23). Ebbene, Gesù ha potuto addirittura chiamare i suoi discepoli a gioire per il fatto di essere perseguitati come lui e per lui. Perdere la nostra vita per lui infatti, significa salvarla e trovarla (cf. Lc 9,24): è paradossalmente il colmo della beatitudine.
Amate i vostri nemici
Di seguito Gesù afferma: “Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano … Come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro … Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre” (Lc 6,27.31.36). Siamo al cuore del Vangelo, al cuore della singolarità della via cristiana aperta da Gesù Cristo. Ma chiediamocelo: questo amore paradossale è realmente possibile nella nostra vita? L’amore simultaneo all’odio del nemico, il fare il bene a colui che ci fa il male, è infatti impossibile alle forze umane, ma può essere reso possibile quale dono di Dio. Perciò Gesù accosta l’amore del nemico alla necessità della preghiera per lui: nella preghiera possiamo vedere chi ci fa del male alla luce del mistero di Dio, che ci ha amati in Cristo mentre noi gli eravamo nemici (cf. Rm 5,6-11).
Come ci ricorda per ben tre volte Gesù, l’amore per il nemico è ricompensa di Dio versata nei nostri cuori con misura traboccante, è “grazia”, è amore di Dio in noi: insomma, è lo Spirito Santo, il dono dei doni da chiedere ogni giorno perché porti a compimento ciò che non possiamo nemmeno iniziare (cf. Lc 11,13). Ma c’è di più. O meglio, c’è l’unica vera ragione per cui un discepolo di Cristo deve amare il nemico: perché Gesù ha vissuto questo comandamento, lungo tutta la sua vita e, in particolare, nella sua passione e morte. Lo ha comandato perché lo ha vissuto. Vivendo e morendo in questo modo, ci ha narrato definitivamente il volto di un Dio che mantiene la relazione di amore con chi lo odia e lo rifiuta, perché è “il Padre misericordioso verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35). Qui trova un senso preciso la richiesta di essere misericordiosi come il Padre. Prima di Gesù la misericordia di Dio poteva sembrare una pia bugia; dopo di lui si è manifestata invece con chiarezza nella vita dell’uomo Gesù Cristo, dunque nella vita cristiana. Se Gesù l’ha vissuta, anche noi possiamo farlo.
La pagliuzza e la trave
Il discorso continua con alcune parole divenute proverbiali: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? … Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello” (Lc 6,41-42). Parole collegate al precedente: “Non giudicate” (Lc 6,37), e pronunciate alla seconda persona singolare, per fare presa su chi ascolta. Si noti la ripetuta menzione del termine “fratello”, a dire che la posta in gioco è quella della correzione fraterna. Qui non vi è una procedura come quella prevista da Matteo (correzione a tu per tu, alla presenza di uno o due testimoni, davanti alla comunità: cf. Mt 18,15-18), ma un invito efficace a compiere una sincera lettura delle proprie intenzioni, quando ci si appresta a criticare qualcun altro.
Solo chi si mette in discussione e si riconosce cieco ha la lucidità per vedere e capire… Altrimenti valgono per noi le parole di Martin Lutero a commento del Salmo 51,5: “Sì, io riconosco le mie ribellioni e il mio peccato mi è sempre davanti”. Ammissione che contrasta con la naturale tendenza ad autogiustificarsi, riflesso immediato a ogni minima accusa che ci viene mossa. Lutero nota che la nostra abitudine ci spinge a stravolgere così questo versetto: “Io riconosco i misfatti degli altri e i peccati degli altri stanno sempre davanti ai miei occhi”. E aggiunge: “La ragione di quanti parlano così è questa: i loro peccati li hanno sulla schiena e nei loro occhi hanno la trave!”.
L’albero e i frutti
Gesù ci indica infine un criterio semplice, alla luce del quale rileggere l’intero discorso: “Ogni albero si riconosce dal suo frutto” (Lc 6,44). Egli non si riferisce ai frutti nel senso di virtù con cui farsi belli davanti agli altri, ma li intende quali segni concreti della verità di una vita, manifestazione visibile di ciò che è invisibile: il cuore puro. Ecco perché “l’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male” (Lc 6,45). Il vero problema è quello di essere vigilanti sul nostro cuore, organo che nella mentalità biblica è la sede dell’intelligenza e della volontà, della ragione e della capacità decisionale, delle emozioni e dei sentimenti: in sintesi, dell’intera persona.
E la conversione del cuore ha una prima evidente conseguenza sul nostro modo di parlare, veicolo della verità o falsità delle nostre relazioni; “la bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda” (ibid.), svela ciò che ci abita in profondità. Non dimentichiamolo.